Downton Abbey – A momenti ci perdiamo una chicca assoluta! di Diego Castelli
Dall’Inghilterra, un period drama da vedere. Punto.
Allora, mettiamo subito le cose in chiaro. Io lavoro a Rete 4, e oggi parliamo di Downton Abbey, che andrà in onda proprio su Rete 4 a partire da domenica prossima, 11 dicembre.
Lo so, la cosa puzza da chilometri. Ma concedetemi 5 minuti della vostra vita, perché stavolta l’entusiasmo del serialminder e l’anima da sporco opportunista vanno di pari passo.
Downton Abbey è una serie inglese, nata inizialmente come miniserie e trasmessa nell’autunno del 2010 su ITV 1.
Downton Abbey, che può sembrare l’appellativo di un improbabile supereroe, è in realtà il nome di un castello/tenuta di campagna dello Yorkshire, posseduta, gestita e adorata dal conte di Grantham, che ci passa la bella stagione con famiglia e domestici. Siamo nel 1912, e la serie racconta le vicende della famiglia Crawley (cognome anagrafico dei padroni di casa) e dei suoi molti camerieri, cuoche, maggiordomi e valletti.
Tema iniziale, ma di certo non unico, della serie, è la questione relativa alla successione di Lord Grantham. Il conte, interpretato da uno Hugh Bonneville sprizzante carisma e nobiltà (ben diverso dal suo sfigatissimo e adorabile Bernie in Notting Hill), ha tre figlie femmine, che non possono ereditare il titolo. L’erede designato è perciò il cugino Patrick, che è anche promesso sposo di Mary, primogenita del conte. La madre di Mary, moglie del Lord, è ricca sfondata, ma tutti i suoi soldi andranno al prossimo conte, quale che sia la sua sposa. Parrebbe tutto a posto: Mary sposa il cugino Patrick (non fate gli schizzinosi, una volta sposare i cugini era normale), mantiene soldi e titolo, e morta lì. E invece no, perché Patrick-il-furbone partecipa al viaggio inaugurale del Titanic, al termine del quale risulta disperso (acc, spoiler!).
Prossimo nella linea di successione risulta allora essere Matthew, lontano cugino che fa l’avvocato a Manchester, che manco sapeva di essere imparentato con dei nobili, che non sembra particolarmente contento di diventare conte, e che per di più potrebbe piacere poco alla bella Mary e a tutti gli abitanti di Downton.
Siete ancora con me? Bene, la parte complicata è passata.
Questa dell’eredità è solo una delle molte storie e sottostorie, che coinvolgono tanto la famiglia Crawley quanto la servitù: dal saggio ed elegante maggiordomo Carson al viscido cameriere Thomas, dalla pacioccosa cuoca Mrs Patmore alla timida sguattera Daisy, passando per il valletto Bates, ex soldato dall’onore incrollabile e dal passato misterioso.
Ora cercherò di riassumere il mio sentimento verso la serie usando il linguaggio tipico dell’epoca: Downton Abbey è una figata colossale.
Una figata che fuori dall’Inghilterra è rimasta quasi sconosciuta per un anno, fino a quando ha vinto una bella carrettata di premi agli ultimi Emmy Award. E meno male che li ha vinti, perché senza le preziose statuette ci saremmo forse persi uno dei migliori drama degli ultimi anni.
La forza di Downton Abbey – che nel corso delle due stagioni finora trasmesse narra la vita dei protagonisti fino alla fine della Prima Guerra Mondiale – sta nella fusione quasi perfetta di diverse anime, differenti approcci al racconto che riescono a soddisfare le più varie esigenze del pubblico.
Per gli appassionati di ricostruzione storica c’è la magnifica atmosfera dell’Inghilterra del primo Novecento, con la cura maniacale dei costumi e delle scenografie (splendido il castello di Hichclere, set principale della produzione), ma anche dei ritmi, delle consuetudini, del modo di parlare di quell’epoca affascinante. Da qui derivano anche i momenti più stranianti o sapientemente comici, in cui i personaggi reagiscono a comodità date per scontate nella nostra vita moderna (l’elettricità, il telefono) in modi deliziosamente inaspettati.
Per gli amanti del drama più puro c’è una storia densa e appassionante, fatta di intrighi e sotterfugi, sogni segreti e amare delusioni, piccoli ricatti e amori non corrisposti. La materia più classica della soap, insomma, trattata con brio ed equilibrio e una piena consapevolezza dei tempi e dei ritmi di una buona narrazione.
Chi invece cerca un prodotto più alto e stratificato rispetto al semplice racconto di segreti di palazzo, sarà ugualmente soddisfatto: perché se è vero che gli eventi in sé e per sé sono tipici di prodotti femminili più comuni, la scrittura dei dialoghi e le modalità visive di messa in scena sono di ben altro spessore. Le parole di Downton Abbey lavorano sempre su più binari, coniugando le necessità più concrete della trama con le finezze del “non detto” e del “solo suggerito”, alternando il dramma più commovente alla commedia più furba (e penso soprattutto all’interpretazione della straordinaria Maggie Smith, la professoressa McGranitt di Harry Potter). Unito a questo, c’è una messa in scena coi fiocchi, che non riguarda solo ciò che si vede, ma anche “come” si vede. I cinque minuti iniziali di Downton Abbey sono da scuola di regia: un volo fluido e incredibilmente affascinante sui primi minuti della giornata al castello, tra nobili che si svegliano, cuoche che spadellano, valletti che indossano le loro livree per iniziare una giornata di guanti bianchi e solenni inchini. Sono cinque minuti che catturano inesorabilmente, e non mollano più.
La prima stagione, composta di sette episodi (ma in Italia verranno trasmessi accorpati in 4 serate, come nella messa in onda americana), si gioca quasi tutta sulle dinamiche interne a Downton, mentre la seconda, andata in onda fino a poche settimane fa in Inghilterra, fa entrare nella storia anche la Guerra Mondiale, che scombina ancora di più la vita e le consuetudini di una famiglia a cavallo tra l’antico e il moderno, in una tensione sotterranea ma presentissima tra ciò che era e ciò che, forse, non potrà più essere. Perché in fondo è questa la vera magia di Downton Abbey: restituire l’atmosfera, la forza, persino l’anima di un periodo particolarissimo, in cui il comodo e rassicurante passato dovette fare i conti con un futuro che bussava alla porta con una violenza mai vista prima.
La terza stagione, già annunciata, accompagnerà i Crawley negli anni Venti, e ne vedremo delle belle, anche perché un altro degli elementi impressionanti è la quantità di avvenimenti incastrati in così pochi episodi: ho visto quindici puntate e mi sembra di seguire la serie da anni.
Se tutta sta spataffiata non vi ha ancora convinto, se ancora non vi fidate della mia buona fede, date retta alla lista degli emmy vinti dalla prima stagione (valutata in quanto miniserie):
-Miglior miniserie
-Miglior sceneggiatura
-Miglior regia (per il primo episodio)
-Miglior attrice non protagonista (Maggie Smith)
-Migliori costumi
-Miglior fotografia (per il primo episodio)
Basta o devo andare avanti?
No perché ne ho per giorni, se volete.
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