A gifted man – Dottori e fantasmi di Andrea Palla
Ma quando suonano “Unchained melody”?
Come sapete tutti, il genere medical drama è uno dei più inflazionati degli ultimi anni. A partire da E.R. (quello che potremmo considerare il miglior esempio di genere, e capostipite di tutti i prodotti a seguire), i vari network si sono arrovellati per produrre telefilm realistici ambientati in sale operatorie e corridoi ospedalieri, con fortune che potremmo definire alterne. Tralasciando le nefandezze prodotte dagli italiani, cult come Dottor House e Grey’s anatomy hanno puntato, più che sull’aspetto tipicamente realistico della messa in scena (com’era in E.R.), su una caratterizzazione forte dei personaggi principali e/o sui legami lavorativi e amorosi tra gli stessi. In altre parole, l’elemento di fortuna di un medical drama negli ultimi anni non è tanto l’aspetto medico, quanto quello del complicato intreccio umano tra i soggetti rappresentati sullo schermo.
In questo contesto si inserisce A gifted man, nuova serie del venerdì sera di CBS, ambientata, come avrete ormai saggiamente capito, in una clinica ospedaliera. Protagonista indiscusso è il Dottor Michael Holt (Patrick Wilson), affermato chirurgo newyorchese che si occupa di curare facoltosi pazienti. La sua vita è pressoché perfetta, piena di soldi e successo, ma priva di una figura femminile o di reali amicizie al suo fianco. Holt ha in qualche modo sacrificato ogni aspetto umano della propria esistenza in favore di un sarcastico cinismo, che gli permette di rimanere all’apice della gloria. Un giorno reincontra per caso l’ex moglie Anna Paul (Jennifer Ehle), con la quale in gioventù aveva portato avanti una clinica in Alaska: insomma, tutto l’opposto di quanto fatto e ottenuto a New York, in quella che si potrebbe definire la sua nuova vita. L’incontro casuale sortirà in lui un effetto nostalgia che, a prima vista, potrebbe aiutarlo a sciogliersi e a ritornare il combattente di un tempo.
Le più romantiche di voi, care lettrici, cominceranno a immaginare una trama da romanzo Harmony, con l’immediata e improvvisa redenzione del Dottor Holt, grazie all’influsso dell’amore ritrovato. Sì e no. Perché non lo nascondo: la deriva buonista arriva fin dal primo episodio, con Holt che si occuperà di aiutare Anna nella gestione di una clinica per poveri e disagiati. Ma la questione è un pochino più complessa di così, ed è in questo elemento che sta la particolarità di questa serie, ciò che la distanzia dagli altri medical e le dona un pizzico di originalità: Anna Paul, infatti, è morta.
Holt comincia a pensare di essere impazzito, o di essere vittima lui stesso di uno di quei mali al cervello che colpiscono i suoi pazienti. Ma presto realizzerà che l’ex moglie non è puro frutto della sua mente, quanto piuttosto uno spirito rimasto imprigionato in questo mondo per portare a termine le buone azioni inconcluse.
Tranquillizzatevi: per quanto abbiamo potuto vedere nel pilot, le atmosfere melense e strappalacrime alla Ghost non ci sono. Il rischio primario di una trama come questa, infatti, era quello di realizzare una serie sdolcinata, mielosa, con un target predefinito e molto limitato. Invece i primi 45 minuti scorrono via abbastanza piacevolmente, e l’atmosfera rosa cede piuttosto il passo all’analisi del protagonista principale, che ci viene presentato nelle sue due sfaccettature: da un lato il cinico chirurgo vincente e pieno di sè, dall’altro l’insicuro e coraggioso medico sognatore. È vero, nulla di particolarmente originale: ma l’impasto complessivo tra drama, romanticismo e commedia (sì, ci sono anche parti che fanno sorridere, create dalle incomprensibili stranezze del medico e dai personaggi di contorno, come la sorella hippie o l’amico sciamano) si amalgama bene e allarga il campo di interesse della serie.
Il pilot è partito in maniera modesta, ma ha fatto registrare comunque buoni ascolti, conquistando il pubblico maturo con una lieve e scontata preferenza per quello femminile di mezza età. Se la serie saprà ben dosare questo mix di situazioni e meccanismi, la prima stagione potrà scorrere via senza troppi fronzoli e senza troppe pretese, ma con elementi di piacevole interesse. D’altronde alla regia troviamo Jonathan Demme, noto soprattutto per quel capolavoro thriller che fu Il silenzio degli innocenti. Anche l’autrice, Susannah Grant, proviene dala grande schermo, a conferma che cinema e televisione si mescolano sempre più per creare prodotti di grande appeal anche per il piccolo schermo.
Insomma, un giudizio abbastanza calibrato su un prodotto comunque diverso dai suoi diretti concorrenti. Il voto definitivo rimane in sospeso, fermo restando che ci sembra che A gifted man non potrà mai essere un vero capolavoro, ma nemmeno una totale boiata come poteva sembrare sulla carta.
Previsioni sul futuro: il dottor Holt tornerà a vivere la medicina come un vero e proprio campo di battaglia, battendosi per i diritti dei più deboli.
Perché seguirlo: perché l’impasto complessivo degli elementi sembra funzionare a dovere, senza derive eccessivamente melense.
Perché mollarlo: perché non è un vero medical e l’aspetto ectoplasmico potrebbe risultare stucchevole.