17 Marzo 2025

Adolescence – Su Netflix un pesantissimo gioiello di Diego Castelli

In quattro episodi tecnicamente e narrativamente poderosi, Adolescence ci parla di noi, del nostro mondo, delle nostre
incomunicabilità

Pilot

Se ne sta parlando molto in questi primi giorni dopo la sua uscita, per un paio di ottime ragioni completamente diverse fra loro: una tecnica e una contenutistica.

E se quella tecnica permette ai nerdoni cinematografici di scervellarsi sulle inquadrature, fare confronti altosonanti e bullarsi con gli amici usando termini scientifici, l’altra picchia forte su alcune questioni di fondo della nostra contemporaneità, su problemi che vediamo, su altri che non vediamo, su inquietudini a volte appena sussurrate, ma potenzialmente dirompenti.

Parliamo di Adolescence, la miniserie di Netflix creata da Jack Thorne e Stephen Graham (che è anche uno dei protagonisti), capace di farsi notare anche solo per quella scelta di fondo non più così inusuale, ma raramente portata a questi estremi: ognuno dei quattro episodi è un unico piano sequenza, un’inquadratura unica che non stacca mai, e che segue i personaggi per quasi un’ora, eliminando qualunque montaggio, pausa o ellissi.

Partiamo proprio da qui, dal dato tecnico. Fino a prova contraria, e abbiamo pure la testimonianza di una ragazza italiana che abita in Inghilterra e ha fatto la comparsa per una delle puntate (mi ha commentato un video su Tiktok), non ci sono trucchi di grafica computerizzata: i quattro episodi, e in particolare i primi due che sono i più complessi in termini di movimenti di macchina e numero di persone sullo schermo, sono effettivamente degli unici piani sequenza, provati e riprovati.

Immaginate l’ansia di girare una scena di 50 e rotti minuti, in cui può andare storto praticamente tutto, e ogni volta devi ricominciare da capo: malfunzionamenti tecnici, una comparsa che cade, un attore che si dimentica le battute, un uccello che ti colpisce il drone. Perché sì, a un certo punto c’è perfino una ripresa aerea dopo che la camera, fino a quel momento operante a livello del suolo, viene agganciata a un drone senza che lo spettatore se ne accorga, per poi librarsi in volo ed essere nuovamente sganciata nella location successiva.

Dal punto di vista dell’impatto visivo, il risultato è davvero impressionante, ben più che nell’ultima puntata di Dieci Capodanni, tanto per citare un caso recente.
Se però fosse solo un vezzo, rimarrebbe poco più che un gioco. In realtà, per una storia come questa, l’idea di stare addosso ai personaggi, senza mai lasciarli, funziona anche dal punto di vista emotivo, che si tratti di seguire un ragazzino appena arrestato nelle varie procedure di ingresso nella stazione di polizia, o che si tratti di assistere a un suo lungo e doloroso interrogatorio.

E forse qui è il caso di dire di cosa parla, questa Adolescence.
La storia è quella di Jamie (Owen Cooper), un tredicenne che, di punto in bianco, viene arrestato dalla polizia in casa sua, prima di colazione. Jamie viene accusato di aver ucciso una sua compagna di scuola, e questa notizia getta la sua famiglia (il padre interpretato da Stephen Graham, la madre e la sorella) in un comprensibile stato di disperazione e disorientamento.

Seguendo momenti diversi, e concedendo un certo spazio anche a figure legate alle istituzioni – i detective Luke Bascombe (Ashley Walters) e Misha Frank (Faye Marsay), la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty) – Adolescence costruisce una storia che, a costo di rischiare lo spoiler, non va considerata come un giallo/mystery.
È un vero e proprio drama, il cui intento è costruire un piccolo mosaico di una situazione terribile, le cui radici sono profonde e diversificate, ma delle quali Adolescence non vuole offrire un quadro sociale, culturale e politico pienamente esaustivo, quanto più un insieme di impressioni, di flash, di parentesi, che anche da sole però trasmettono una precisa sensazione di fragilità, di sgomento, di alienazione.

È qui che, oltre i virtuosismi della regia, entrano in gioco la scrittura e la recitazione.
Quella di Adolescence è prima di tutto una storia di violenza sulle donne, resa ancora più disturbante dal fatto che le persone direttamente coinvolte sono, come da titolo, adolescenti.

Da questo punto di vista, è una storia che tocca alcuni concetti e termini precisi, come quello dei redpilled o degli incel (gli “involuntary celibate”, i maschi che non riescono a trovare partner sentimentali e sessuali e si radicalizzano su internet diventando oppositori di qualunque forma di femminismo ed emancipazione femminile) e delle teorie pseudo-scientifiche da essi elaborate e rilanciate in rete (come la famigerata “80-20”, mutuata dal Principio di Pareto).

Allo stesso tempo, questo non è nemmeno il cuore della faccenda, e Adolescence non è un trattato di psicologia (criminale e non). Il vero focus della narrazione sta invece su un concetto più sfuggente, che è quello della crescente incomunicabilità fra generazioni.
La questione di fondo della serie non è tanto (o non solo) l’insorgere di problematiche potenzialmente pericolose fra gli adolescenti, quanto il fatto che quelle problematiche si sviluppano dentro cornici e codici comunicativi che passano da piattaforme, simboli e linguaggi che gli adulti non comprendono e di cui spesso nemmeno conoscono l’esistenza, così che i ragazzi si ritrovano completamente soli, fin quando il danno non è compiuto.

In questi termini, agli autori non interessa impartire leggi morali, mettere al rogo i “cattivi” o, al contrario, trovare per loro delle giustificazioni.
Il quadro che la serie affronta è così complesso, che la sceneggiatura se ne tiene almeno in parte fuori, facendo capire che l’obiettivo non è offrire una disamina completa di un fenomeno troppo grande per quattro episodi di una serie tv.

Quello che Adolescence lancia è prima di tutto un grido di allarme e una richiesta di aiuto: è proprio mostrando quanto una certa situazione sia complessa, fin da un’età molto bassa e ben oltre le classiche semplificazioni da social, che la serie riesce a porre domande inquietanti senza la necessità di fornire risposte, ma semplicemente per dire “ragazzi, apriamo gli occhi perché non solo non stiamo riuscendo a vedere le cose importanti, ma non sapevamo nemmeno dove guardare”.

Un lavoro, questo, reso ancora più intenso da alcune interpretazioni magistrali. Stephen Graham, che poche settimane fa abbiamo visto nei panni del duro e pericoloso Sugar Goodson di A Thousand Blows, interpreta qui un padre che ha sempre fatto del suo meglio, e che nonostante questo si ritrova in una situazione per lui complessissima e incomprensibile.

Owen Cooper, che ha solo 15 anni, regge in maniera impeccabile scene lunghissime in cui gli viene richiesta una variabilità espressiva semplicemente fuori scala, eppure necessaria a mettere una vicina all’altra tutte le tessere del difficile mosaico.

Erin Doherty (pure lei appena vista in A Thousand Blows), che interpreta la psicologa chiamata a valutare con attenzione la mente del presunto assassino, costruisce con Cooper una puntata di un’intensità semplicemente pazzesca, tipo datele-un-premio-subito.

Non è una serie semplice, Adolescence. Non lo è perché le sue premesse possono suggerire generi e consuetudini che sono proprie di altri prodotti (come detto, non è un giallo e non è un poliziesco, non nel senso classico del termine), perché il suo ritmo più rallentare anche molto nella seconda parte, e perché… beh, perché per essere apprezzata appieno chiede di metterci in gioco come adulti, come cittadini, come genitori (chi lo è), insegnanti (chi lo è), persone che abbiano a cuore l’idea di una collettività in cui ci sia spazio per la comprensione dei fenomeni, per il sapere chi si è e dove si è (e questo vale per chiunque).

Ho già visto commenti di persone che si sono annoiate, ma anche di chi ha rifiutato certe implicazioni e risvolti della storia, forse perché troppo dolorose, forse perché capaci di toccare corde che alcuni non vogliono vedere toccate, forse perché trovarsi di fronte la complessità del reale, quando avevamo semplicemente premuto play a una miniserie di Netflix, può fare davvero spavento.

E però ascoltate un cretino: provateci, metteteci tutto quello che avete, perché Adolescence è una cosa piccola, eppure enorme, e io credo che rimarrà nella testa e nei cuori di molti, per molto molto tempo.
Almeno, considerando quello che può insegnare, c’è da sperarlo.

Perché seguire Adolescence: affronta temi difficili ma importantissimi, e lo fa con sublime perizia tecnica e grande capacità di emozionare.
Perché mollare Adolescence: se cercate una miniserie che vi risollevi lo spirito, questa non lo farà, anzi.



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