10 Marzo 2025

Il Gattopardo su Netflix – Poteva andare molto peggio di Diego Castelli

Nonostante l’immortalità del romanzo e del film di Luchino Viscoti, Il Gattopardo di Netflix trova una sua cifra e non dimentica certi insegnamenti

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Se avete ascoltato la puntata di Salta Intro dello scorso 7 marzo, mi avrete sentito fare un pre-commento a Il Gattopardo, la serie di Netflix tratta dal capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Avevo visto solo una puntata, rimandavo il commento vero al successivo episodio del podcast (ancora da registrare), ma usavo una parola già molto netta: fictionaccia.

Ebbene, mi sono sbagliato. O meglio, ci sono degli elementi di questa miniserie che fanno suonare alcuni campanelli d’allarme relativi alle modalità più deteriori che abbiamo in Italia di fare serialità, ma allo stesso ne Il Gattopardo non c’è solo questo, e tutto il resto, che si vede più compiutamente nel corso dei sei episodi, mi fa ritirare quel brutto termine.

Non per sostituirlo con “capolavoro”, non facciamoci trascinare dalle polarizzazioni internettiane. Però insomma, io mi aspettavo un disastro, che a conti fatti però non c’è.

Bisognerebbe partire da una premessa che per qualcuno sarà triggerante, ma che in realtà ci serve anche per dire cose positive sulla miniserie.
La premessa è che Il Gattopardo di Netflix non è espressamente pensato per un pubblico di lettori del romanzo o amanti del classico film di Luchino Visconti. Non solo perché parliamo di due opere complessivamente vecchie, che non sono nella dieta mediale della maggior parte degli italiani, a meno di obblighi scolastici. Ma anche perché, banalmente, Netflix non produce serie tv italiane solo per gli italiani: spera invece che, chi più chi meno, siano spendibili per un pubblico anche internazionale. E se andiamo all’estero, di gente comune che conosca già Il Gattopardo ne troviamo pochina, in relazione alle necessità commerciali della piattaforma.

Questo lo si vede, per esempio, nel modo in cui la miniserie scritta da Richard Warlow e Benji Walters (non sono italiani, tradimento!) si concentra sulla figura di Concetta (Benedetta Porcaroli) e del suo amore assoluto e sfortunato per il cugino Tancredi (Saul Nanni). Per una storia che si chiama “Il Gattopardo”, dove sto felino è un principe siciliano interpretato da Kim Rossi Stuart, l’attenzione per la figlia innamorata del nobile è un modo nemmeno troppo velato di rendere questa botta di letteratura classica più appetibile per un pubblico giovane e internazionale, che può struggersi per un amore contrastato che il romanzo effettivamente racconta, anche se non lo mette così esattamente al centro della storia.

Facciamo un passo indietro. Il Gattopardo, come accennato, racconta le vicende di una famiglia siciliana al cui vertice c’è Don Fabrizio, detto appunto Il Gattopardo. Siamo negli anni del Risorgimento italiano, quando Garibaldi, alla testa dei famosi Mille, sbarca in Sicilia con l’idea di combattere i borboni e fare l’Italia unita.

Don Fabrizio appartiene a una nobiltà terriera ricca, antica, tradizionale, votata alla dignità e all’eleganza, che naturalmente vede di cattivo occhio l’arrivo di questi cialtroni rivoluzionari che sobillano i contadini e riescono ad ammaliare anche l’adorato nipote Tancredi, che Don Fabrizio ha di fatto allevato come figlio suo dopo la morte dei genitori del ragazzo.

Solo che la Storia non si ferma, la rivoluzione di politiche e costumi prosegue, e la famiglia deve fare i conti con la progressiva fine del loro mondo nobiliare e l’ascesa di un nuovo ceto borghese più interessato agli affari e alla politiche nazionale e internazionale, piuttosto che alla salvaguardia di vecchie tradizioni e valori ormai desueti.
Lo stesso patimento di Concetta, in questo senso, è a sua volta metafora del cambiamento: l’amore fra cugini, che potrebbe tenere saldissima la famiglia, viene incrinato dall’arrivo della bella e conturbante Angelica (Deva Cassel), che è figlia di un sindaco non nobile e fa girare la testa al giovane Tancredi.

Come detto, ci sono degli elementi de Il Gattopardo che possono farcelo sembrare una classica e non troppo memorabile fiction di Rai Uno.
Potremmo parlare di molti dialoghi didascalici e terra terra, e di recitazioni non sempre all’altezza. La Porcaroli mi sembra la migliore, Rossi Stuart è tanto efficace quando sta zitto, quanto impostato e finto quando parla, e Deva Cassel ha ereditato la bellezza della madre Monica Bellucci ma anche le ehm… doti recitative.

Ci sono anche alcuni passaggi che, se conoscete il materiale precedente, possono suonare “sprecati”: c’è un famoso monologo del Principe che nella miniserie avviene davanti a molte persone e con un certo impatto scenico, e che risulta meno forte, meno impattante dello stesso momento nel film di Luchino Visconti, dove la scena è molto più raccolta ma le parole pronunciate sono più dense di significato e più potenti del ricordo.

Più in generale, e mi rendo conto che sia una considerazione non troppa analitica, Il Gattopardo è considerato un grande classico della letteratura italiana (pur essendo stato pubblicato nel ’59, quindi tutto sommato “di recente” rispetto ad altri grandi classici), ed era diventato un film che è a sua volta considerato un grande classico del cinema italiano e mondiale.
In questo senso, dubito fortemente che Il Gattopardo di Netflix verrà considerato un grande classico della serialità italiana e mondiale, e vale la pena dirselo chiaramente per evitare fraintendimenti.

Come detto però, ci sono anche cose che funzionano, alcune pure inaspettate.
Innanzitutto, Il Gattopardo è una miniserie di grandi mezzi. Scenografie, costumi, ricostruzioni di scenari e monumenti, la bellezza della Sicilia rurale (anche se la serie non è interamente girata lì), sono tutti elementi molto ben rappresentati, che contribuiscono al piacere puramente visivo della storia, ma che hanno anche una valenza narrativa: è nel contrasto fra la campagna bucolica e immota, e le spinte borghesi e militari della città, che si gioca parte dell’immaginario di questa grande epopea.

Allo stesso modo, ci sono effettivamente diverse scene ben riuscite, e il fatto che buona parte di esse sia legata all’anima più soap e pruriginosa della questione, non gli toglie necessariamente valore.
Abbiamo accennato sopra alla storia d’amore di Concetta e Tancredi, interrotta dalla fascinosa Angelica, che riesce a farsi metafora dell’arrivo della borghesia che turba la secolare placidità del mondo nobiliare. Questo risultato si deve anche a scelte azzeccate in fase di casting (dare quella specifica parte a un’attrice e non un’altra) e in termini di messa in scena, dove il rosso peccaminoso del vestito di Angelica sa di rivolta e ribaltamento dell’ordine costituito (una scelta azzeccatissima che è proprio della miniserie, non c’era nel film di Visconti dove Claudia Cardinale appariva per la prima volta vestita di bianco).

C’è però un ulteriore elemento che trovo importante.
Vale la pena di ricordare che Tomasi di Lampedusa, che apparteneva effettivamente a una nobile famiglia siciliana, scrisse Il Gattopardo sul finire della sua vita, facendone un testamento malinconico e struggente di ciò che vedeva nel mondo intorno a sé.
Pur ambientando la storia nel Risorgimento, l’autore riusciva a costruire una nostalgia del tempo che fu che si può applicare più o meno a ogni epoca, perché sempre gli esseri umani tendono a vedere il loro passato con occhi indulgenti, o a struggersi in un più cinico, ma non meno nostalgico, “si stava meglio quando si stava peggio”.

Ecco, Il Gattopardo (inteso come il romanzo), che ha la sua frase più famosa nel celeberrimo “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, racconta la nostalgia di Tomasi di Lampedusa per un mondo che era sparito, che lui riteneva evidentemente migliore, e che si era trasformato sotto la spinta della Storia ma anche degli stessi siciliani, pronti ad adattarsi ai nuovi tempi con spregiudicatezza ma senza dimenticare un senso di superiorità e purezza smentito dai fatti.

Lo stesso aggettivo “gattopardesco”, che in teoria non aveva un’accezione negativa nel romanzo, è divenuto inesorabilmente un sinonimo di trasformismo, di opportunismo, di tradimento di qualcosa di più alto e meritevole.

Tutto questo approccio, che ho riassunto in maniera fin troppo brutale, nella miniserie c’è, e non era scontato che ci fosse.
Considerando che Netflix è uno dei soggetti che più spesso subisce la critica di rimaneggiare i contenuti per farli aderire a una visione delle cose che sia il più contemporanea possibile, vedere una miniserie in cui, senza paura di sbagliare, finiamo col tifare per la nobiltà e contro la democrazia e il Risorgimento, per di più in una versione che ci appare non pura, non epica, ma appunto figlia di compromesso, di di accordi, di cambiamento che poi non è vero cambiamento. Non è cosa da poco.

E attenzione, è giusto che sia così. Non perché effettivamente dobbiamo rimpiangere il tempo che fu, ma perché Il Gattopardo è questa cosa qui, e mostrarla nella sua essenza è giusto e doveroso, perché il pubblico deve avere la possibilità, e il diritto, di immergersi in uno sguardo e in una prospettiva che non sia necessariamente la sua, ma che in quanto tale permette di allargare la propria comprensione del mondo e degli esseri umani.
Tanto più che, come detto, l’istinto a guardare al passato con nostalgia è radicato nella nostra specie, ed è uno dei motivi che ha reso il romanzo un classico istantaneo dotato di una forza che va oltre il tempo che racconta e quello in cui è stato concepito.

Insomma, Il Gattopardo di Netflix è una miniserie con i suoi limiti, le sue ingenuità, la sua “fictionosità”, e sperare che possa imporsi con la stessa forza dell’originale letterario e di quello cinematografico è semplice utopia.

Però, a sorpresa, è ancora Il Gattopardo, non solo per il nome e la trama che ha, ma perché alcuni intimi significati e riflessioni, seppur in maniera incostante, riescono comunque a salire sulla superficie dello schermo, per farsi vedere da un pubblico che, in larga parte, non li conosceva in altre forme precedenti.
Poteva davvero andare molto peggio.

Perché seguire Il Gattopardo: è una miniserie ricca, tutto sommato godibile, che riesce a trattenere e riproporre almeno qualcosa dell’inarrivabile originale.
Perché mollare Il Gattopardo: i fan accaniti di romanzo e film potrebbero odiarlo a prescindere, e in generale resta un adattamento scolastico, senza grandi guizzi e con qualche faciloneria.



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