6 Marzo 2025

Paradise finale di stagione – Diteci tutto e anche di più di Diego Castelli

Con l’ultimo episodio stagionale, Paradise svela molti dei suoi segreti e si prepara per la seconda stagione già annunciata

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ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE DI PARADISE

Siamo arrivati alla fine della prima stagione di una delle serie migliori di questo periodo, rivelatasi tale con un percorso non così scontato.
È un thriller, una distopia, a tratti un disaster, ed è una serie molto “americana” nel suo essere votata allo spettacolo anche a costo di forzare qualche scelta narrativa e qualche sviluppo di trama. Ma allo stesso tempo, forte del gusto e dello stile del suo creatore Dan Fogelman, che era lo stesso di This Is Us, è anche una serie di grande intimità, empatia, attenzione per la psicologia dei personaggi.

Una serie che nemmeno nel suo finale rinuncia alla gioia del racconto, alla necessità di stare vicino a vecchi e nuovi protagonisti, per capire cosa pensano, cosa desiderano, di cosa hanno paura, sapendo che da lì, soprattutto da lì, può arrivare l’emozione vera, più che dalle esplosioni e dalle eruzioni.
Insomma, parliamo del finale di Paradise.

In realtà, e dando per scontato che se siete qui avete visto l’ottavo episodio, dovremmo pure parlare della settima puntata, che raccontandoci del disastro naturale e poi militare che ha costretto una piccola porzione di cittadini statunitensi a rinchiudersi in una montagna, ha dato vita a un racconto di grande forza emotiva, pieno di scene struggenti, ad alto tasso di commozione.

Un episodio che ha consapevolmente rischiato più volte di superare il confine dell’eccessivo zucchero, del melodramma diabetico, ma che in virtù di grandi scelte di ritmo, di montaggio, e di grandi interpretazioni, è riuscito a trasmettere pura e semplice emozione, di cui non ci siamo vergognati nemmeno per un attimo.

Arrivati al vero finale, però, la serie si portava dietro alcune responsabilità: doveva dirci come sarebbe proseguita la storia della scoperta di Xavier, venuto a sapere che la moglie è probabilmente ancora viva, e doveva dare una risposta ai molti misteri ancora in ballo, primo fra tutti quello sulla morte del Presidente.
E attenzione, non era nemmeno sicuro che l’avrebbe fatto, considerando che siamo abituati a serie mystery che sì, qualche risposta la danno, ma si tengono le domande principali ancora irrisolte, almeno per un’altra stagione.

Ebbene, con Paradise non è stato così, perché in effetti veniamo a scoprire quasi tutto quello che ancora rimaneva segreto, e gli autori scelgono consapevolmente di sciogliere molte matasse e labirinti, tenendosi però anche il margine per preservare qualche inquietudine e per dare una base molto precisa e non per forza “facile” per la seconda stagione, che è già stata annunciata.

Nel fare questo, Fogelman e soci azzeccano buona parte delle scelte, anche se è possibile trovare qualche punto più tremolante della struttura.

La scelta su come risolvere il giallo della morte del Presidente è piuttosto coraggiosa, perché la risoluzione dell’enigma è relativamente “piccola”, non riguarda un mega complotto esagerato che possa essere la base per diciotto stagioni: è l’azione di un uomo qualunque, mosso da motivazioni molto personali.

Quello che veniamo a sapere è che a uccidere il Presidente è stato il bibliotecario della cittadina, che prima di allora era stato un lavoratore della montagna, e aveva visto la spietatezza con cui Sinatra e i suoi (e per proprietà transitiva il Presidente) avevano deciso di sacrificare gli operai in nome di un piano segreto che veniva tenuto nascosto al pubblico.

Sconvolto da quella rivelazione, e mosso dall’affetto verso un amico conosciuto al cantiere e condannato a morire, l’uomo, di nome Trent, aveva deciso di sostituirsi a due persone presenti nella lista dei “salvati”, per ottenere così l’accesso alla montagna e concludere la sua missione.

Nella storia di Trent vediamo già alcune cose che funzionano molto bene, e altre meno. La costruzione in sé del personaggio e dei suoi sentimenti è magistrale: in pochissime scene maturiamo un immediato affetto per quest’uomo e percepiamo la giustezza delle sue recriminazioni, che sono poi quelle di un’umanità intera. Quando poi scopriamo che è la stessa persona che avevamo già visto attentare alla vita del Presidente proviamo il gustoso brivido della sorpresa, a cui si aggiunge poi l’ulteriore stupore nell’accorgersi che sia Trent sia la donna che lui aveva convinto a spacciarsi per sua moglie per passare i controlli (la cameriera Maggie) erano persone che conoscevamo da tempo, praticamente dall’inizio della serie.
Insomma, la soluzione nascosta in bella vista, che è sempre un piacere.

Allo stesso tempo (ma lo ritengo un difetto meno importante dei pregi), il fatto che Trent abbia fatto la sua vita nella montagna, ormai integrato, riaccendendo la sua passione omicida solo quando il Presidente entra nella biblioteca da cliente, l’ho trovato un po’ forzato, così come ho trovato molto “scritta” la scena in cui Trent alla fine si suicida, aprendo letteralmente un buco nel cielo della cittadina.
La metafora di una rottura del quieto vivere, l’apertura di uno squarcio, reale e metaforico, nel paradiso che tanto paradiso non è, è chiara e di per sé efficace, ma ci si arriva in maniera abbastanza svelta e, per questo, inevitabilmente didascalica.

Naturalmente la storia di Trent, che pure risolve il principale giallo della serie fin qui, non riempie l’intero episodio. Dobbiamo infatti seguire Xavier che arriva a scoprire tutta la verità sul fatto che fuori dalla montagna c’è ancora della gente viva, e dobbiamo vedere come risolve il suo rapporto con Sinatra e la questione del rapimento della figlia (che noi sappiamo essere stata presa da Jane, ma Xavier non lo sa).

Anche in questo caso, molte luci e qualche ombra. La caccia al tesoro in biblioteca funziona, così come sempre alta rimane la tensione ogni volta che Xavier e Sinatra sono nella stessa stanza.
In questo contesto, assolutamente deliziosa la scena in cui Jane chiede la Wii in cambio dei suoi servigi (che in quel momento, per quel che ne sappiamo, vertono sull’omicidio della figlia di Xavier).

Questa doppia esposizione della malvagità – da una parte quella razionale, spietata, ma anche in qualche modo inevitabile, di Sinatra, e dall’altra la totale follia di una scheggia impazzita come Jane, la cui ombra scura continuerà a proiettarsi anche sulla seconda stagione – funziona alla grande, restituendoci un’ulteriore impressione di fragilità di tutto questo paesello messo in piedi per essere un eden, e che invece di paradisiaco ha sempre meno.

Anche qui, però, possiamo trovare degli inciampi: per esempio, il fatto che Jane arrivi a sparare a Sinatra, riuscendo a lasciarla viva ma incapace di parlare, suona forzato, a meno di considerare Jane la più grande tiratrice della storia dell’umanità, cosa sulla quale non avevamo avuto così tanta preparazione.

E più in generale, il fatto che Xavier si lanci nella caccia al tesoro anima e corpo, senza fare nemmeno un tentativo contemporaneo di capire dove sia e in che condizioni si trovi la figlia, sembra nuovamente una scelta molto scritta, molto “abbiamo poco tempo e ci serve che tu faccia questo sennò la storia di incaglia”.

Lo stesso dualismo lo troviamo anche nel finale: è ovvio e giusto che ora Xavier voglia andare all’esterno a cercare la moglie. Anzi, è l’ottima base di una seconda stagione che corre pure il rischio di diventare un generico distopico nella foresta, un The Walking Dead senza zombie, ma che intanto ha perfettamente senso.
Un po’ meno senso ha il fatto che Xavier decida di partire da solo, aprendo portelloni carismatici da eroe solitario, quando in realtà, per come si sono messe le cose nella cittadina, sarebbe molto più razionale organizzare una bella spedizione con venti persone ben equipaggiate.

Ora non vorrei che questo elenco dei pregi e difetti del finale facesse passare l’impressione che l’ho trovato “così così”.
In realtà, credo sia l’ottimo finale di un’ottima prima stagione. Ma non solo, o non tanto, per una generale pulizia della scrittura e delle interpretazioni, o per la pura e semplice capacità di creare un racconto appassionante, che già comunque basterebbe.

La vera questione è quella che ci dicevamo all’inizio, cioè la capacità/volontà di Dan Fogelman di prendere un genere molto riconoscibile che ci sembra assai codificato (secondo il modello di Lost, per dirne una) e farlo proprio, secondo le proprie esigenze: da qui l’attenzione maniacale ai sentimenti dei personaggi anche al di là del plot nudo e crudo, e la voglia di chiudere i cerchi che vengono aperti, preferendo trovare nuovo materiale narrativo da aggiungere, piuttosto che allungare molto a lungo ciò che c’era fin dall’inizio (un problema che sta avendo anche una serie comunque ottima come Severance).

Il risultato è che vogliamo bene a questi personaggi, ci sentiamo dentro a questo mondo, e non ci sentiamo presi in giro o inutilmente trascinati in mezzo alla polvere e alla nebbia. Sappiamo tante cose, vediamo i collegamenti e la struttura, percepiamo i rimandi a un mondo reale che, fra riscaldamenti climatici, pandemie e presidenti pazzoidi, ci sembra meno lontano da queste distopie di quanto vorremmo.
Ma vediamo anche che c’è ancora molto da raccontare e che vogliamo sapere.
Non capita spesso che sia così, gioiamone.



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