Dieci Capodanni – Una straordinaria normalità di Diego Castelli
Con Dieci Capodanni, Rodrigo Sorogoyen racconta la complessità delle relazioni senza nemmeno bisogno di metterla sullo scherm
Arrivo un po’ in ritardo a parlare di Dieci Capodanni, per due motivi diversi: il primo è che la mia attenzione nei confronti di Rai Play è più bassa rispetto a quella riservata ad altre piattaforme, e il secondo è che non impazzisco per le serie spagnole. O meglio, non impazzisco per lo spagnolo in quanto lingua, e spero di non offendere nessun/a ispanoablante all’ascolto, è una pura questione sonora, non so nemmeno spiegare bene perché.
Detto questo, il passaparola internettiano ha fatto sì che la serie di Rodrigo Sorogoyen (astro nascente dell’audiovisivo spagnolo dopo Antidisturbios e As Bestas), arrivata su Ray Play a fine gennaio, sia diventata un titolo “caldo” di queste settimane, con un sacco di gente impegnatissima a condividerne gli elogi sui social, spesso con un certo snobismo verso tutto il resto, del tipo “le serie tv ormai sono tutte brutte e tutte uguali, guarda qui che perla ti ho tirato fuori”.
Ecco, naturalmente non sentirete dire da me che le serie tv sono tutte brutte e tutte uguali, perché non è vero, ma sul fatto che Dieci Capodanni sia effettivamente una perla, ho poco da obiettare.

Come nome suggerisce, la serie racconta la relazione fra due personaggi, Ana (Iria del Río) e Oscar (Francesco Carril), illustrata solo attraverso dieci capodanni successivi, con la scusa che Ana compie gli anni il 31 dicembre e Oscar il primo gennaio.
È una tecnica narrativa che abbiamo già visto più volte (nel recente One Day di Netflix, per esempio, ma anche in un film italiano del 2009 come Dieci Inverni), ma che mantiene comunque una sua freschezza, perché non ne è stato fatto un abuso eccessivo nel corso degli anni.
Ma se fosse solo questa la particolarità o l’anima di Dieci Capodanni, avremmo più o meno finito la recensione. Per fortuna, c’è qualcosa in più da dire.

Quando Ana e Oscar si incontrano hanno 30 anni e una personalità già ben formata: Ana è una donna di sogni e progetti, non sa ancora cosa farà nella vita, ma sa che la affronterà con un certo ottimismo e voglia di sperimentare. Oscar, invece, è un medico con una carriera più stabile, un’indole più rigida e organizzata, e una tendenza a innamorarsi di donne che non gli somigliano e per le quali soffrirà, pure se lui vorrebbe essere più moderno, adulto e distaccato.
Quando si incontrano, la scintilla è quasi immediata, e nei primissimi episodi Sorogoyen racconterà una passione fisica spiccata, con scene di sesso molto esplicite e insistite rispetto allo standard delle serie tv. Un modo per mettere una forte base di attrazione, per mostrare che a queste due persone, quale che sia il loro futuro, non basteranno un paio di serate frizzanti per considerare chiusa la pratica.
A questo punto evitiamo di esagerare con gli spoiler, ma non è difficile immaginare che fra questi due le cose non andranno liscissime, altrimenti non ci sarebbe nulla da raccontare, specie considerando che il “cosa” raccontare diventa un tema assai importante per un racconto che si dà dei paletti così precisi in termini di cornice temporale della storia.

La tecnica di focalizzarsi sempre sulla medesima data si porta dietro una scommessa che è più o meno sempre la stessa: ammettere che non tutti i capitoli conterranno eventi di grande importanza (perché non sarebbe realistico), lasciando però che quelle cose importanti, accadute a telecamere spente, echeggino all’interno degli episodi, nei quali gli spettatori saranno curiosi di vedere cosa è successo mentre non eravano collegati.
Questo approccio vale anche per Dieci Capodanni e funziona bene anche qui, ma è addirittura portato all’estremo da Sorogoyen, con episodi in cui non solo non ci sono eventi importanti, ma una larga percentuale dei dialoghi si basa sul nulla, chiacchiericcio spesso fine a sé stesso, girandole di parole e pensieri vorticano in tondo prima di trovare un qualche tipo di sbocco.
La vera sfida del regista spagnolo, dunque, diventa rendere interessante e significativo anche quel nulla, inteso come specchio di una quotidianità che, anche nei suoi momenti più anonimi, può nascondere grandi tensioni.

I protagonisti di Dieci Capodanni sono molto normali. Non brutti, ma nemmeno due figoni da serie patinata hollywoodiana.
È già la dichiarazione d’intenti di una serie che racconta due persone effettivamente ordinarie, prese da ansie personali, lavorative e romantiche per nulla stupefacenti, in cui tutti possiamo trovare almeno un margine di possibile identificazione.
Allo stesso tempo, però, quelle vite ordinarie, raccontate di anno in anno, accumulano anche riti di passaggio, mattoni di rancore, strati di frustrazione. Ci sono delle studiatissime ridondanze, come la tendenza di Oscar a essere passivo aggressivo quando non si sente abbastanza apprezzato, o la tendenza di Ana a non riuscire a trovare una stabilità soprattutto mentale, presa com’è a inventarsi svolte di vita che suonano sempre passeggere e instabili.
Ma è proprio qui che Dieci Capodanni trova la forza di un racconto verissimo: nel mostrare personaggi che parlano davvero del più e del meno (scivolando spesso in incazzature non motivate dal discorso, ma solo da ciò che si portano dentro), che evolvono con lentezza, che assorbono i traumi fingendo di non esserne influenzati, che provano a capirci qualcosa di una vita e di una relazione che non è così diversa da quella di tutti gli altri, ma che è più facile giudicare da fuori, piuttosto che gestirla da dentro.

Dieci Capodanni termina con un episodio interamente girato in piano sequenza (quasi 50 minuti di ripresa continuativa, senza mai staccare), che è ulteriore simbolo della volontà del suo autore di restituirci una completa impressione di realtà.
Ma anche senza quel virtuosismo (comunque vertiginoso), il concetto sarebbe passato comunque: per quanto sia facile criticare i personaggi o provare affetto per loro, anche nella modalità del “doveva fare così, non doveva fare cosà”, durante la visione c’è sempre la sensazione di stare guardando gente vera che fa cose vere, persone che potremmo incontrare domani per strada, e nella cui storia possiamo scegliere cosa estrapolare e su cosa riflettere.
La serie ha un finale vero, prende una decisione chiara sul destino dei suoi personaggi, e può piacere come non piacere. Ma la sensazione è comunque quella di un percorso aperto, di una fatica e di un impegno messi in una relazione del cui futuro ci interessa fino a un certo punto, perché la cosa importante sono i sentimenti, le paure, i ragionamenti che hanno portato ad agire in un modo o in un altro, con l’impressione complessiva che ai protagonisti sia sì lasciato un margine di decisione e libero arbitrio, sballottato però da una vita che scorre e che, inevitabilmente, tutto trascina, scombina, disordina.

Senza bisogno di eventi grandiosi e sorprese stra-ordinarie, Sorogoyen rende straordinaria la normalità di Ana e Oscar proprio perché ne fa un simbolo della nostra, dando valore drammatico e filosofico non solo alle vite tumultuose degli eroi hollywoodiani, ma anche alle nostre piccole esistenze, all’apparenza tranquille e immeritevoli di attenzione, ma singolarmente attraversate da grandi passioni, sogni, delusioni e improvvise felicità.
Una riflessione che si applica alla serie stessa, che diventa memorabile proprio perché rifugge il classico mantra tale per cui il cinema sarebbe la rappresentazione della vita senza le parti noiose. Dieci Capodanni riesce a rendere interessanti anche le parti noiose perché suonano vere, sapendo però che una serie come questa non potrà fare più di tanto scuola: la maggior parte delle narrazioni sarà sempre diretta verso emozioni più immediate, lasciando a prodotti come Dieci Capodanni il compito di spuntare qui e là, nella loro unicità. Se tutte le serie fossero come Dieci Capodanni, ci sarebbe da riscoprire la vita fuori casa (cosa che non vorrei fare).

In ultimo, una nota di doppiaggio. Normalmente guardo le serie tv in lingua originale, ma in questo caso ho fatto un po’ e un po’, sempre per il fatto che lo spagnolo non mi piace granché.
Il doppiaggio italiano di Dieci Capodanni è complessivamente buono, se non fosse per una scelta poco giustificabile: a un certo punto i personaggi si trovano in Francia e giustamente, nella versione originale, con i francesi si parla in francese. Nella versione italiana, tutti parlano sempre la stessa lingua, come Massimo Boldi che parlava in italiano a Luke Perry in Vacanze di Natale ’95.
Una scelta francamente incomprensibile per una serie d’autore distribuita da Rai Play: il pubblico si può trattare meglio di così.
Si tratta comunque dell’unica sbavatura, ovviamente non attribuibile a Sorogoyen e i suoi, per una serie che merita la visione senza se e senza ma. Perché il più delle volte guardiamo film e serie per conoscere realtà e fantasie diverse dalle nostre, ma qualche volta è utile guardare uno schermo e scoprire che può trasformarsi in uno specchio.
C’è sempre da imparare.
Perché seguire Dieci Capodanni: per la capacità di raccontare una normalità che tutti conosciamo, dandole il valore e lo spessore dell’universalità.
Perché mollare Dieci Capodanni: sono dieci episodi di gente che parla e in cui succede relativamente poco. Bisogna darle fiducia.
