18 Febbraio 2025

Cobra Kai series finale – Come fai a volergli male? di Diego Castelli

Con la fine di Cobra Kai arriva a conclusione una delle operazioni-nostalgia più simpatiche e riuscite degli ultimi anni

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ATTENZIONE!! SPOILER SUL FINALE DI COBRA KAI!

E siamo arrivati anche alla fine di Cobra Kai.
Dopo quasi sette anni (era il maggio del 2018) termina una storia che era nata quasi per scherzo, di fatto una suggestione sentita per la prima volta in How I Met Your Mother, quando Barney Stinson stupiva gli spettatori con un punto di vista assurdo ma gustosissimo sulla famosa saga di Karate Kid, dove secondo lui il vero eroe non era il mitico Daniel interpretato da Ralph Macchio, bensì Johnny Lawrence, il bullo interpretato da William Zabka che in How I Met Your Mother veniva pure a fare la comparsata divertente.

Cobra Kai è nata quasi come uno scherzo, una parodia, una visione sul futuro di Karate Kid in cui mettere davvero al centro la figura di Johnny, con però quella consapevolezza e quell’autoironia indispensabili anche solo per recuperare una trilogia che all’epoca guardavamo con occhi serissimi, e che oggi ci appare una ragazzata piena d’amore e buoni valori, ma anche tanto ingenua e sportivamente ridicola.

In sei stagioni (prima su Youtube e poi su Netflix), Cobra Kai ha affrontato varie fasi, non tutte positive, e qualche volta si è incartata su sé stessa, perdendo la sua anima e mostrando troppo vistosamente i suoi difetti.
Questi ultimissimi episodi, figli di una stagione spezzata in più tronconi, hanno però recuperato lo smalto originale, offrendoci un finale che fosse davvero degno, e davvero coerente con le premesse della serie.

Abbiamo parlato tante volte, su più piattaforme, del perché Cobra Kai avesse funzionato fin dall’inizio, e non ha senso perderci troppo tempo ora.
Basterà ricordare che la giusta intuizione dei creatori Hayden Schlosberg e Jon Hurwitz fu quella di affiancare una certa povertà produttiva del progetto (chiamiamola artigianalità), tutto sommato coerente con l’originale, con una dose molto marcata di autoironia e metatestualità.

La prima stagione di Cobra Kai non era minimamente seria come il primo film della saga di Karate Kid, Johnny era un simpatico imbecille, molti dei giovani attori erano spalle comiche, e la stessa istituzionalità del personaggio di Daniel serviva a farci amare ancora di più Johnny, vero protagonista di uno spinoff che si chiamava come il dojo più odiato dagli eroi “ufficiali”.

Era proprio quell’ironia, unita a un progetto molto preciso di progressivo richiamo e reintroduzione di tutti i vecchi attori e attrici di Karate Kid, a mettere su Cobra Kai un bollino di nostalgia dichiarato ed esplicito che bastava a sopperire a tutte le altre mancanze della serie, che da un punto di vista visivo e, almeno in parte, di struttura narrativa, non raggiungeva quasi mai gli standard a cui siamo abituati.
Insomma, lo spinoff di un drama adolescenziale che per sopravvivere diventa comedy.

Con l’andare delle stagioni, quest’anima si era un po’ persa. In parte perché gli effettivi drammi vissuti dai protagonisti (amorosi, sportivi, perfino criminali in qualche caso) non riuscivano sempre a essere stemperati dall’ironia. In parte perché, forse, il successo della serie ne ha imposto una diluizione che ha impoverito le trame già non trascendentali, costringendo i personaggi a trovare sempre nuovi modi per menarsi, sempre nuove scuse per litigare anche quando la loro evoluzione sembrava andare in una direzione precisa – il progresso etico, morale, valoriale di Johnny è il cuore della serie, ma spesso andava interrotto o deviato per durare di più – e arzigogoli regolamentari per rendere i tornei sempre più caotici, arbitrari, devoti a un’idea di epica che sempre più si allontava dal realismo.

Con la quinta stagione e l’inizio della sesta si è forse toccato il punto più basso, con ragazzi teoricamente iniziati alla non violenza che non facevano altro che prendersi a sberle, tornei di adolescenti in cui si combatteva all’ultimo sangue con tecniche che con il karate avevano sempre meno a che fare, e grandi istituzioni sportive che trasmettevano più che altro l’impressione di grandi carrozzoni posticci, buoni solo a fare da cornice.

Soprattutto, l'(auto)ironia stava sparendo, con personaggi che prendevano troppo sul serio le loro sfighe, dimenticandosi però che sullo schermo, il più delle volte, apparivano come guerrieri in pigiama e cui facevamo fatica a concedere la credibilità che chiedevano.

Sul finale, però, la resurrezione. Una cosa forse non sorprendente: guardando gli ultimi episodi, ho avuto l’impressione nettissima che gli autori sapessero da anni dove la serie sarebbe andata a parare, salvo essere costretti a rimandare quel momento per raccogliere quanto più successo possibile in mezzo.

Perché dopo aver visto il finale non credo ci possano essere dubbi sul fatto che Cobra Kai dovesse effettivamente finire così, trovando il coronamento finale di tutti gli sviluppi raccontati fino a quel momento, riannodando tutti i fili, e perché no, raccontando una gran quantità di “lieti fini”, perché questa non è una serie o una saga adatta a finali drammatici.

Soprattutto, è un finale che, nonostante la figura di Daniel si sia fatta sempre più ingombrante nel corso degli anni, non dimentica le proprie origini, dando a Johnny la conclusione che meritava o che, più banalmente, ci era stata promessa.

A guidare tutto c’è una specie di operazione di sintesi, per conservare le evoluzioni senza scordare il passato.
Lo si vede per esempio nella scelta, da parte della figlia di Daniel, di non combattere più: dopo intere stagioni in cui l’insegnamento difensivo del maestro Miyagi era stato appannato dalle necessità battagliere delle sceneggiatura, è una buona scelta quella di far ritirare Samatha perché, semplicemente, gli allievi del maestro Miyagi (anche quelli indiretti) sanno che combattere è una cosa da evitare a meno che non sia necessario.

In questo senso, il fatto che invece il Cobra Kai continui a lottare è coerente con la sua storia, ma non impedisce a Johnny, dopo sei lunghe stagioni, di aver imparato qualcosa di vero dal rapporto con Daniel. Johnny alla fine combatte per sé, sapendo di essere cresciuto come sportivo, come uomo, come padre, e lotta soprattutto contro la paura, che poi era la battaglisa “giusta” a cui lo stesso maestro Miyagi faceva riferimento nel terzo film.

È questo il motivo che consente anche a Daniel, nel finale, di indossare la divisa del Cobra Kai, evento di per sé notevolissimo per gli amanti della saga: lo fa perché il Cobra Kai, che sopravvive alla serie e continua a prosperare, non è più “quel” Cobra Kai, quello della saga cinematografica.
L’insegnamento finale della serie riguarda anche il fatto che Daniel non distrugge il Cobra Kai, ma lo migliora, lo ingloba, lo influenza così da tenerne il buono (l’attacco insieme alla difesa) eliminandone le componenti più tossiche, in un’opera di ricomposizione che, di nuovo, è perfettamente coerente con l’insegnamento del maestro Miyagi.

Ci sono poi moltissimi dettagli gustosi.
La vittoria finale di Johnny, un Johnny cambiato e cresciuto che ottiene il successo sullo stesso tatami che l’aveva visto sconfitto nel primo film, è roba da commozione vera.

La fine dei cattivissimi Kreese e Silver (il primo riabilitato e infine pentito, capace di scusarsi con Johnny per avergli rovinato la vita) avviene con un’esplosione su uno yacht che è probabilmente la cosa più anni Ottanta che potesse venirgli in mente.

I finali felici dei ragazzi sono commisurati al loro percorso: non tutti vanno all’università, ma tutti trovano una strada che gli consenta di sentirsi completi e capiti.

E poi forse il mio preferito: quando Johnny e Daniel si allenano per la finale, in sottofondo partono le note di “You’re The Best” di Joe Esposito, colonna sonora di Karate Kid, e tutta la scena ha una chiarissima vibe da Rocky (peraltro citato espressamente da Daniel), che era diretto da John G. Avildsen, regista anche di Karate Kid (quindi nell’universo di Karate Kid esiste il regista di Karate Kid: piccoli paradossi per far felici noi nerd).

Insomma, il finale di Cobra Kai funziona. Recupera (ancora una volta) le atmosfere, i temi e gli insegnamenti dell’originale, adattandoli alla riabilitazione di un personaggio e di un marchio che proprio in virtù di un processo di crescita e maturazione arrivano a conquistare una gloria sudata, guadagnata, giusta.

Se all’inizio Cobra Kai era quasi una comedy pura, alla fine diventa un racconto epico come l’originale, in cui gli insegnamenti del maestro Miyagi arrivano a fare l’impossibile: instillare il buono anche nei nemici, concedendo una grande vittoria a un ragazzo che se la meritava, in una ricomposizione dei conflitti che acquista davvero il sapore di una chiusura del cerchio a quarant’anni di distanza.

E poi sì, resta una serie per tanti versi ridicola e goffa e stupidotta. Ma anche Karate Kid, a guardarlo oggi, può suonare goffo e stupidotto, eppure lo amiamo e lo ricordiamo comunque.
Faremo lo stesso anche con Cobra Kai.



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