Cassandra su Netflix – Fra horror, IA, e implausibilità di Diego Castelli
Una serie sci-fi/horror che parte da premesse interessanti e uno stile gustoso, ma che si scontra con troppe forzature
Per una semplice questione di tempo e di salute mentale, normalmente non sto dietro a TUTTE le nuove uscite di Netflix, inteso come i prodotti non di lingua inglese che escono a ciclo continuo su una piattaforma ormai espansa sull’intero pianeta.
Poi certo, se un titolo arriva a farsi notare per qualche motivo (come fu per Dark o La Casa di Carta), allora ci si mette in pari, o quanto meno ci si prova.
Mentre scrivo queste righe (13 febbraio 2025), le due serie in cime alla classifica delle più viste di Netflix nel nostro paese non sono né italiane né anglofone: la prima è svedese (Åremorden : Gli omicidi di Åre), l’altra tedesca (Cassandra).
Della prima magari riparleremo anche qui (sicuramente lo faremo su Salta Intro e l’ho già fatto su Tiktok), ma oggi vorrei concentrarmi sulla seconda, una serie sci-fi/horror con un potenziale molto preciso verso i discorsi del nostro tempo, che però si porta dietro alcuni problemi tanto gravi quanto… interessanti da discutere.
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Creata da Benjamin Gutsche, Cassandra racconta la storia di una famiglia dei giorni nostri (padre, madre, figlio adolescenti, figlia bambina), che si trasferisce in una nuova città dopo un fatto traumatico avvenuto nel posto dove vivevano prima.
La nuova casa è in realtà una vecchia residenza anni Settanta in cui i nostri scoprono la presenza di una specie di antenata di Alexa e della domotica: l’abitazione è infatti collegata a Cassandra, un sistema di intelligenza artificiale comprensivo di monitor per l’interazione, telecamere in ogni stanza, e anche un vero e proprio robot, che una volta riattivato si presenta come potenziale aiuto tuttofare, con in testa uno schermo dove appare il volto sorridente di questa famigerata domestica virtuale.
Naturalmente, però, qualcosa non torna: quella che all’inizio sembra una figata fantascientifica, si rivela molto presto una presenza inquietante e forse anche pericolosa, la cui genesi scava in un passato torbido che la serie si premura di raccontarci tramite flashback in cui vediamo la vita di un brillante scienziato, che era sposato con la vera Cassandra, e che ne ha creato un simulacro meccanico per motivi molto precisi.
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Partiamo con le cose buone, che pure ci sono, anche se poi dovremo calare una scure piuttosto pesante.
Cassandra è una serie furba, che colpisce fin dalla sua locandina con quel sorriso disturbante incorniciato dallo schermo del robot, e che cerca di trovare un punto di incontro fra un sottogenere abbastanza preciso dell’horror (quello delle “cose” animate e pericolose, che siano una casa, una bambola, un’automobile ecc), e un’ansia molto contemporanea per tutte le funzioni della vita quotidiana che abbiamo abdicato al digitale, insieme a una bella fetta della nostra privacy.
Tecnicamente, Cassandra non è propriamente “digitale”, ma pone esattamente quel problema: la comodità di averla in casa cozza con la sorveglianza che essa esercita sulla famiglia, e gli strumenti che può usare per facilitare la vita dei suoi padroni (porte che può aprire e chiudere, lame per affettare le carote e via dicendo) mostrano fin da subito il lato oscuro di una pericolosità che non è al 100% in capo agli umani che teoricamente sarebbero le massime autorità della casa.
In tutto questo, la provenienza vintage di Cassandra – che permette di fare un bel lavoro sulle scenografie anni Settanta, consente di giocare sul classico tema dell’orrore che viene dal passato e si nasconde ancora nella casa usurpata dai contemporanei, e garantisce l’alternanza con una storia in flashback che spesso diventa più interessante di quella del presente – è un tocco di stile che funziona nel momento in cui sposta nel passato, rendendolo per questo più raccontabile e razionalizzabile, un tema centrale del presente: quello di un’arroganza umana che costruisce tutto ciò che può semplicemente perché può, senza curarsi delle conseguenze a lungo termine.
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E fin qui, più o meno, tutto bene, con l’aggiunta di qualche scena di tensione vera in cui l’incubo della casa intelligente che diventa anche cattiva ci porta a guardare con sospetto qualunque device tecnologico intorno a noi, con i loro pallini rossi che diventano occhi che ci spiano, ci giudicano, complottano.
Purtroppo, però, Cassandra si porta anche dietro un problema molto grosso, che indebolisce l’intera struttura quasi dal minuto uno, e a cui non si riesce quasi mai a trovare rimedio: quello della plausibilità.
La base del ragionamento è più o meno questa: quando si decide di inserire un elemento “fantastico” in una storia, non c’è limite a quello che si può inventare, in sé e per sé. Allo stesso tempo, quell’elemento fantastico deve comunque sottostare a un insieme di regole che devono rimanere coerenti nel corso della narrazione (Batman non può acquisire i poteri di Superman, a meno che non si trovi una spiegazione convincente), e deve inserirsi in un mondo che, se viene dato per scontato essere il nostro mondo, deve continuare a sottostare alle regole della nostra realtà.
Per dirla in altro modo: se anche la nostra storia prevede l’arrivo di Superman all’interno della realtà che conosciamo, quella realtà deve essere proprio la nostra, con le nostre regole e limiti, e parte della storia verterà proprio sull’incontro fra la nostra realtà con i suoi limiti e l’elemento fantastico.
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Ebbene, Cassandra si porta dietro il problema di non riuscire a rispettare queste regole di base, in almeno due sensi diversi.
In primo luogo, la famiglia protagonista, che è espressamente una famiglia dei giorni nostri, non si fa alcun problema per la presenza di Cassandra, al netto di un po’ di sorpresa. Nessuno cita l’intelligenza artificiale, nessuno parla di ChatGPT, nessuno sembra conscio del mondo in cui si trova, un mondo in cui le persone (a maggior ragione se giovani o ragazzi) già conoscono questi temi, ne discutono, parlano delle loro opportunità e rischi, comprendono alcuni meccanismo di base della tecnologia.
C’è insomma fin da subito l’impressione che questa famiglia sia volutamente “ingenua”, perché questo aiuta la narrazione complessiva, creando però un effetto di straniamento che non lascia ben sperare.
Il vero problema però arriva dopo: Cassandra è inquietante. Dal minuto uno. Non esiste che queste persone del 2025 non se ne rendano conto. Soprattutto, non esiste che per puntate e puntate continuino a stare in quella casa quando praticamente da subito Cassandra scatena crisi di panico nella madre e mette in pericolo i ragazzini.
Una discreta porzione delle sceneggiatura di Cassandra viene spesa per provare a giustificare il fatto che questa gente continui a stare in quella casa nonostante sia un incubo a occhi aperti, ma è una strategia fallimentare sia perché la struttura a episodi rende sempre meno plausibile questo gioco, sia perché l’inquietudine generata dall’assistente robotica è immediata e inequivocabile: né noi né i personaggi abbiamo realmente il tempo di abituarsi alla sua presenza prima che diventi pericolosa.
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Intendiamoci, negli horror va spesso contemplato un elemento di ingenuità. Pensiamo a quante volte abbiamo visto personaggi camminare verso il pericolo quando, nella realtà, chiunque scapperebbe da quella situazione.
Una cosa però è vederlo in un film di 90 minuti, in cui magari si riesce a trovare una singola motivazione per motivare l’agire dei personaggi. Altro conto è avere episodi su episodi in cui un marito completamente cretino, di fronte a una moglie ormai in piena crisi isterica, continua a dare retta più all’assistente robotica conosciuta due giorni prima che alla madre dei suoi figli.
E no, certi problemi psicologici della donna non sono giustificazione sufficiente, non è mica schizofrenica.
Poi attenzione, esiste in Cassandra un tema di genere tale per cui i mariti sono completamente egoriferiti e non danno ascolto ai bisogni delle mogli: è evidente il parallelismo fra lo scienziato degli anni Settanta, che usa la moglie perfino per fare i propri esperimento scientifici, e lo scrittore frustrato del Ventunesimo Secolo, che vorrebbe solo essere lasciato in pace mentre lavora, e chi se ne frega se intanto la casa cerca di ammazzargli la consorte.
Il problema però è proprio questo, la forzatura delle regole di base in nome del risultato spettacolare.
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Cassandra è una serie che vuole approfondire alcuni temi e suscitare alcune emozioni, due cose che effettivamente fa, e che a volte fa anche bene.
Il problema è che la base di quei ragionamenti dovrebbe essere una storia che fili, che ci catturi, che ci faccia sentire parte di un mondo a cui possiamo credere, dopo che ci vengono spiegate le regole iniziali.
In questo Cassandra fallisce quasi completamente, costringendoci a forzare noi stessi per stare dentro un racconto che in tanti, troppi punti, ci suona implausibile, forzato, non-spiegato. Con il risultato, naturalmente, che anche quei temi e quelle emozioni ne risultano depotenziati, perché stiamo già usando troppe energie cognitive per tappare i buchi lasciati dalla sceneggiatura.
Il risultato paradossale è che è più interessante la storia della vera Cassandra (ambientata in un mondo che ci suona ancora credibile) rispetto a quella della sua versione robotica, che racconta un gruppo di personaggi che, per un motivo o per l’altro, vorresti riempire di sberle.
A conti fatti, un’occasione mancata, un’esperienza azzoppata.
Perché seguire Cassandra: per il gusto di molte scelte stilistiche e per la capacità di costruire qualche buon momento di tensione.
Perché mollare Cassandra: in troppi punti la serie suona non-credibile, forzata, implausibile.
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