17 Gennaio 2025

Severance 2 – La recensione senza spoiler dei primi quattro episodi di Diego Castelli

Il ritorno complicato, denso, affascinante, della miglior serie del 2022

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Nello scrivere qualche riga preliminare a proposito della seconda stagione di Severance (Scissione), in partenza oggi 17 gennaio su Apple Tv+, devo subito confessare una pigrizia: Apple mi aveva concesso la visione dei primi sei episodi, ma solo quattro erano già completati e corredati di sottotitoli in inglese.
Gli altri due non avevano subs e, in più, non erano ancora rifiniti, con un montaggio ed effetti visivi non definitivi. Siccome già una volta mi era capitato di guardare delle puntate di House of the Dragon in cui i draghi erano pupazzotti verdi in attesa di CGI, ho deciso di fermarmi prima.

Detto questo, quattro episodi su dieci complessivi mi sembrano già sufficienti per dare uno sguardo a cosa è successo alla miglior serie del 2022, chiamata a restare degna del suo glorioso passato e stupire nuovamente i suoi spettatori, rimasti abbagliati dalla creatività e dall’inquietudine della prima stagione.

Le sfide erano diverse, alcune forse più complesse del previsto. Senza fare spoiler, possiamo dire che Severance è ancora Severance, anche se, effettivamente, qualche rischio c’è.

C’è una premessa da fare, che poi sarà anche chiave di lettura più complessiva: se anche non avete il tempo di riguardare da capo la prima stagione, perché avete una vita da vivere e delle lavatrici da fare, non fate l’errore di arrivare alla seconda stagione senza aver letto/guardato un riassunto della prima.
Davvero, fidatevi, non vi ricordate abbastanza, e rischiate di non capirci più niente.

La mia vecchia recensione del finale, più “riassuntosa” del solito, può già aiutare, ma in generale cercate di recuperare le fila del discorso.
Un discorso che, se ricordate, era arrivato a un punto decisivo, il punto in cui le due anime dei protagonisti – quella interna alla Lumon, che non ha memoria della vita fuori dall’ufficio, e quella esterna, relativa alle persone che per vari motivi hanno deciso di sottoporsi alla scissione – finivano col toccarsi e scambiarsi, consentendo agli inconsapevoli impiegati della Lumon di vedere un pezzo della vita di fuori, scoprendo verità spesso sorprendenti e disturbanti: su tutte il fatto che la moglie di Mark, creduta morta, era in realtà la psicologa della Lumon, e il fatto che Helly, che da impiegata scissa aveva addirittura tentato il suicidio, è in realtà l’erede diretta del fondatore della compagnia.

Qui troviamo già uno snodo decisivo, e una sfida importante per gli autori (fra cui continua a figurare anche Ben Stiller, regista del primo episodio stagionale). Se vogliamo, è lo stesso problema della seconda stagione di Squid Game: come facciamo a rimettere i personaggi negli stessi ambienti che hanno contribuito così tanto al successo della prima stagione (e che quindi il pubblico si aspetta di rivedere), quando gli eventi del primo ciclo di episodi hanno messo in crisi proprio la loro presenza in quegli stessi luoghi?

Senza fare spoiler, possiamo dire che gli sceneggiatori trovano effettivamente una quadra, non senza una qualche dose di paraculaggine: visto che, per loro, trovare il modo di rimettere i personaggi negli uffici della Lumon era di per sé un mistero, l’hanno fatto diventare un mistero anche per noi, perché fin dalla prima scena troviamo Mak nei corridoi dell’azienda, senza sapere bene come ci sia tornato e perché.

Non è un mistero di quelli “grossi”, ma il fatto che la questione venga effettivamente problematizzata, e mescolata insieme agli altri nuovi temi e scenari della seconda stagione, è di per sé un pregio, perché denota la volontà di non prendere in giro chi guarda.

E qui però entriamo in un terreno più accidentato.
Severance è anche una serie di misteri, e quelli continuano a essere la chiave dell’intrattenimento. Alcuni ce li portiamo ancora dietro dalla prima stagione, e altri ne vengono aggiunti, sia in termini di macro-narrazione, sia in termini di singole scene, immagini e ambienti, che fanno partire dei gustosi what the fuck.
Uno di questi si può anche citare, perché usato nelle foto promozionali distribuite da Apple, e riguarda la presenza di Gwendoline Christie (indimenticata Brienne di Game of Thrones) in una mise vagamente pastorale su cui non diciamo altro.

Il tema e, di nuovo, la sfida, è la stessa che diede parecchi grattacapi a Lost: quando costruisci una serie di misteri, all’inizio è tutto bello, affascinante, conturbante. Ci buttiamo su un’isola deserta, o dentro un dedalo di uffici strampalati, assorbendo tutti i dettagli, accettando ogni domanda, sapendo che le domande faranno montare la nostra curiosità e il nostro entusiasmo.

E poi però bisogna saper gestire le risposte. La prima stagione di Severance ne dava comunque parecchie, ma la seconda stagione, che di suo non può essere originale come la prima, perché ormai la storia è avviata e la conosciamo, deve trovare un suo equilibrio fra interrogativi e soluzioni, aggiungendo carne al fuoco ma preoccupandosi di farcene mangiare un po’, perché creare la fame negli spettatori è giusto e doveroso, ma se poi non li sfami quelli danno di matto.

Da questo punto di vista, i primi quattro episodi qualche perplessità me l’hanno lasciata.
Intendiamoci, la storia è ancora intrigante, certe soluzioni visive sono perfettamente azzeccate (ci sono momenti nel quarto episodio che fanno venire i brividi lungo la schiena), e l’approfondimento dei personaggi va di pari passo con quello delle tematiche più generali della serie, sia che si parli di costruzione dell’identità, sia che si rimanga nell’abito più aziendale della faccenda (comicissimi i tentativi della Lumon di diventare più “umana” dopo la ribellione di Mark e compagnia nella prima stagione).

Soprattutto, rimangono saldi due pilastri della prima stagione: la curiosità complessiva per gli scopi ultimi della Lumon, e una tensione sempre più crescente fra le varie identità dei personaggi, che sanno più di prima ma non tutto, e che anzi proprio perché sanno “un po’ di più di prima”, ora sentono l’insopprimibile necessità di sapere tutto.

Allo stesso tempo, però, è cresciuto l’impegno richiesto agli spettatori per stare dietro a tutto. La seconda stagione di Severance è più densa, più complicata della prima, proprio in virtù della mescolanza dei suoi piani narrativi, e chiede a chi guarda un’attenzione ancora maggiore.

In più, già in questi quattro episodi si può patire quella specie di stanchezza di cui si parlava prima, quel desiderio di sapere che però viene frustrato all’aggiunta di altre domande.
È una percezione estremamente (estremamente!) soggettiva, che dipende davvero tanto dalle aspettative, dalla concentrazione con cui si riesce a seguire le puntate, dalla maggiore o minore disponibilità di ognuno di noi di andare avanti ancora a lungo a non sapere certe cose o altre.

In conclusione, che “conclusione” ovviamente non è, il ritorno di Severance è il ritorno di una serie densa, stratificata, piena di simboli, indizi e mistificazioni.
Una serie buona per far funzionare il cervello, per trovare emozioni e umanità dentro ingranaggi che di umano hanno poco, per riflettere sulla nostra identità e il nostro posto.

E poi, però, anche una serie difficile, complessa, sempre sull’orlo del respingente, lì dove la fatica dello scavare può portare a trovare le pepite d’oro, oppure solo altro fango.
Troppo presto per un commento finale, dopo aver visto nemmeno metà stagione. Ci risentiremo sicuramente, e vedremo in che condizione saremo, se stanchi ma felici, solo stanchi, o incazzati, o commossi, o chissà cos’altro.
Dopotutto, questa totale incertezza sul futuro è anche il bello di una serie come Severance.



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