Squid Game 2 – Non poteva che dividere di Diego Castelli
La seconda stagione della serie-fenomeno coreana prova a scalare la montagna di hype lasciata lì dalla prima
UN PO’ DI SPOILER SULLA SECONDA STAGIONE
Quando ti capita fra le mani un successo come Squid Game (e parlo di Netflix, ma anche specificamente del suo creatore Hwang Dong-hyuk), l’inevitabile entusiasmo può tramutarsi molto presto in un’altrettanto inevitabile spada di Damocle.
Si perché dopo un trionfo come quello, arrivato nel 2021, Netflix ha ovviamente preteso una seconda stagione, e non è che gli spettatori si mettano a fare chissà quali tare: se mi dai una seconda stagione di una serie che mi è piaciuta moltissimo, voglio che anche la seconda mi piaccia moltissimo, altrimenti ti insulto.
La missione, come vedremo fra poco, era sostanzialmente impossibile, ma Hwang Dong-hyuk ha cercato di andare dritto per la sua strada, tenendo salde le redini di una storia che, di per sé, un seguito lo poteva pure produrre.
Il risultato, come era facile aspettarsi, sta dividendo molto, e io mi piazzerò ben bene nel mezzo, perché siamo ancora sotto le feste e non ho voglia di litigare.
I motivi del successo della prima stagione di Squid Game furono sostanzialmente tre, due interni alla serie e uno esterno, diciamo tecnologico e di contesto.
I primi due riguardano il concept e il messaggio.
Questa storia di giochi mortali ispirati a passatempi per bambini, piena di sorprese e morte, colori pastello e sangue rosso, violenza e tenerezza, offriva un miscuglio di opposti di facilissima presa, altissima comprensibilità, e immediata dipendenza. Nel suo essere eccessiva e in-credibile, toccava corde profonde ed emozionanti, capaci di parlare a una platea vastissima, a prescindere dalla provenienza geografica.
In più, Squid Game si portava dietro un messaggio politico-culturale non da poco. La sfida fratricida di una massa di poveracci accecati dall’ambizione per la ricchezza, ingannati da una masnada di ricconi annoiati che li comandavano come marionette, non era altro che una chiarissima metafora anticapitalista che non solo denunciava lo scandalo di un mondo poverissimo guardato dall’alto da accumulatori di denaro, ma funzionava anche a più livelli, perché il turpe reality show che uccideva i suoi protagonisti chiamava in causa anche tutti coloro che, appena possono, guardano volentieri le sfighe degli altri come forma di intrattenimento.
Una denuncia quindi netta e precisa, ma anche stratificata e intelligente, che sarà alla base delle critiche mosse al vero reality di Squid Game, uno show praticamente perfetto nella sua realizzazione tecnica e narrativa, ma che si portava dietro l’ipocrisia di essere un’incarnazione di tutto ciò che Squid Game (la serie) denunciava.
Poi c’è il tema del contesto: Squid Game raggruppa e ammucchia i suoi personaggi per poi ucciderli uno a uno, in un mondo non ancora fuori dall’incubo della pandemia, e tuttavia pronto a viverne una sorta di bizzarra parodia capace di raggiungere ogni angolo del pianeta in un solo giorno, e capace quindi per la prima volta di rendere davvero planetaria una serie che, per provenienza geografica, prima di Netflix non avrebbe mai potuto avere la stessa diffusione.
Se questi appena elencati sono i principali motivi del successo della prima Squid Game, sono anche quelli che decretavano fin da subito l’impossibilità, per la seconda stagione, di raggiungere lo stesso successo (e parlo di successo intellettuale, di critica, di opinioni, al di là del numero di visualizzazioni su cui è presto per dare un verdetto).
Non era possibile che la seconda stagione fosse originale come la prima. Non era possibile che trovasse un altro messaggio forte, chiaro e attuale quanto il primo, rimanendo dentro lo stesso universo narrativo. Non era possibile trovare la stessa identica congiuntura astrale che aveva favorito la viralità della prima stagione.
Da questo punto di vista, riesco solo a immaginare i dubbi che devono avere assillato Hwang Dong-hyuk e i suoi al momento di scrivere il secondo ciclo di episodi.
Riproporre lo stesso schema, al massimo con qualche prova nuova, doveva sembrargli una via semplice per la banalità. Allo stesso tempo, fregarsene completamente dei giochi mortali per parlare solo di un ex vincitore lanciato verso la vendetta, rischiava di trasformare Squid Game in qualcosa che non fosse più Squid Game.
Alla fine, la scelta è caduta su una via di mezzo forse inevitabile, che però è dovuta scendere a compromessi e trovare un equilibrio che ben difficilmente avrebbe messo d’accordo tutti.
Il che non significa, però, che non sia riuscita a portare a casa dei risultati.
La seconda stagione di Squid Game si compone di sette episodi, a differenza dei nove della prima, e nei primi due non fa vedere i classici giochi e i colorati spazi a cui eravamo abituati.
Racconta invece dell’incessante impegno di Gi-hun, alias giocatore 456, di trovare il reclutatore che l’aveva portato dentro il gioco, così da riuscire a risalire ai suoi organizzatori.
Sono due puntate che molta gente ha definito noiose e non-Squid Game, un giudizio con cui dissento almeno parzialmente perché contengono effettivamente alcune scene forti (su tutte, naturalmente, la roulette russa al termine della quele Gi-hun porta alla morte il reclutatore), e perché hanno un valore narrativo preciso, cioè quello di rendere credibile, al netto di qualche forzatura, il ritorno di Gi-hun dentro il gioco.
In questo senso, la scelta del protagonista di fare da esca, salvo poi accorgersi di aver fatto male i conti e di essere costretto a giocare ancora, può apparire forzata soprattutto per certe leggerezze dei buoni, ma ha comunque senso all’interno del mondo della storia, e permette a Gi-hun di non snaturarsi, tornando a fronteggiare il suo passato senza fargli perdere tutta la consapevolezza e i desideri acquisiti.
Ed è proprio questa evoluzione del protagonista che, poi, permette di tornare nel gioco e divertire gli spettatori con una nuova girandola di sangue (nuove prove, nuova violenza, stesso adorabile grottesco), trovando comunque il modo di inquadrare il tutto da una prospettiva diversa.
Condividendo lo sguardo di Gi-hun, non viviamo il gioco con lo stesso senso di scoperta della prima volta, sostituendolo (diciamo affiancandolo) con l’urgenza di trovare un modo per interromperlo, sabotarlo, ribaltarlo dall’interno.
È un’impalcatura non priva di difetti e fragilità, fra cui dobbiamo certamente inserire una scrittura abbastanza moscia delle sottostorie dei personaggi secondari, ma che tutto sommato ha un senso, funziona, ci permette di essere insieme dentro e fuori, capaci di squittire di sadica gioia a ogni morte violenta, ma anche di cogliere il senso di posizionamento diverso del protagonista sulla scacchiera.
Oltre a questo sforzo, c’è poi anche una precisazione e un affinamento del messaggio politico, che viene in qualche modo “aggiornato” grazie alla semplice aggiunta di una regola al gioco: ora i concorrenti possono votare dopo ogni prova, decidendo a maggioranza se proseguire o no la sfida, piuttosto che fermarsi e dividersi il montepremi fin lì accumulato.
Naturalmente, i giocatori si spaccano: è ovvio che, dopo aver appreso che la sconfitta nei giochi conduce alla morte, molti vorrebbero tirarsi indietro. Ma è altrettanto ovvio (anche se, va detto, non sempre la sceneggiatura riesce a “venderci” questo concetto con totale efficacia) che ci saranno un tot di giocatori portati lì dalla miseria e dai debiti, che saranno più che disposti a rischiare la vita (ma pure a uccidere) pur di vedere il montepremi alzarsi sempre di più.
Di nuovo, quindi, ci troviamo nella situazione di poveri gladiatori che si scannano nell’arena per il divertimento dei padroni, con in più lo sberleffo di mostrare l’inutilità di uno strumento come il voto, simbolo di una “democrazia” che, se parte da regole e contesti sbagliati, sarà una democrazia che produce un risultato tecnicamente corretto, ma anche grottescamente aberrante e incapace di affrontare i veri problemi.
Insomma, a me sembra che la seconda stagione di Squid Game faccia i suoi sforzi per portare davvero avanti il discorso che aveva iniziato tre anni fa, pur nella consapevolezza (nostra, ma credo anche loro) che c’erano aspettative completamente insuperabili.
Allo stesso tempo, come detto, ci sono anche passaggi più deboli, personaggi meno forti rispetto alla prima stagione, e anche qualche scelta discutibile sul finale.
O meglio, il fatto che si chiuda con un cliffhanger che ci rende praticamente obbligatoria la visione della terza stagione, è una furbata comprensibile. Allo stesso tempo, proprio quelle ultime scene sembrano togliere così tanta importanza al gioco, da svilire almeno in parte ciò che abbiamo visto fino a quel momento, come se ci stessero dicendo che seconda e terza stagione (già confermata, sarà l’ultima) erano in realtà una sola stagione, bruscamente spezzata in due, con le cose più succose tenute per la fine.
Come detto, comunque, non mi sento di essere troppo duro, e nemmeno troppo morbido. Ho guardato con interesse questi sette episodi, non mi sono annoiato, e credo che Hwang Dong-hyuk abbia lavorato con intelligenza per tenere la barra dritta di un percorso narrativo e tematico che rischiava di sfaldarsi sotto le pretese del marketing e dell’hype collettivo.
Poi certo, credo che quando, fra dieci o quindici anni, qualcuno ci dirà “ti ricordi di Squid Game?”, praticamente tutto ciò che ci verrà in mente verrà dalla prima e non dalla seconda stagione.
Credo però che l’asticella fosse davvero in alto, forse troppo in alto per chiunque.
PS E comunque una cosa in testa mi è rimasta eccome: la musichetta del gioco Mingle, quella specie di girotondo in cui i concorrenti devono entrare a gruppi nelle porte. Me la sogno di notte, a momenti.