Dune: Prophecy season finale – Si poteva fare di più di Diego Castelli
Dopo un buon esordio, Dune: Prophecy ha faticato ad alzare il tono, finendo la stagione col fiato corto
ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE!
Dando per scontato che a tutti, al momento di scrivere una serie tv, o un romanzo, o un film, piacerebbe tirar fuori qualcosa che sia forte e importante dall’inizio alla fine, alle volte questo non è possibile, non ci si riesce proprio.
C’è allora da chiedersi: potendo scegliere, meglio iniziare bene e poi perdersi? Oppure iniziare cauti e poi finire bene? Questa seconda ipotesi parrebbe sempre la migliore, per lasciare un ricordo più positivo, ma con le serie tv c’è il rischio che la gente si annoi e che al finale potente non ci arrivi nemmeno.
Poi certo, se riesci a fare bene sia l’inizio che la fine, di solito ti si abbuona pure una parte centrale così così (viene in mente il caso della prima stagione di Silo).
Ebbene, oggi riparliamo di Dune: Prophecy dopo i sei episodi della prima stagione, constatando che, e aggiungerei “purtroppo”, la serie prequel dei film di Dune è stata capace di partire piuttosto forte, ma poi si è persa via, non riuscendo ad accelerare ulteriormente.
Del pilot avevamo già parlato, e ci eravamo detti che la serie di HBO (in Italia disponibile su Sky) era stata molto abile a piazzare i suoi pezzi sulla scacchiera, con un nutrito gruppo di personaggi spalmati su due diversi piani temporali, tutti uniti per raccontare l’ambizione di Valya Harkonnen di diventare Madre Superiora del suo ordine, nonché la più segreta ma anche la più potente influenzatrice delle sorti della galassia.
(Esiste la parola “inffluenzatrice”? Vabbè diciamo di sì)
Era un episodio denso, che richiedeva una certa attenzione, ma che prometteva di restituire altrettanto in termini di tensione, emozione, pienezza narrattiva.
Questo è stato vero fino al terzo episodio, in cui gli intrighi politici e familiari venivano adeguatamente punteggiati da scatti di violenza, cinismo e intelligenza, forti abbastanza da farci mangiare le unghie sulla poltrona: dal misterioso Desmond Hart che brucia vivo il giovanissimo futuro sposo della principessa, al passato di Tula, spinta dalla sorella a uccidere l’uomo che pure amava, in nome della vendetta della famiglia contro gli odiati Atreides.
Magari non era proprio Game of Thrones (ma nemmeno GoT sparava bordate fortissime nei primi tre episodi), ma avevamo comunque l’impressione di stare guardando qualcosa di “grosso”.
Poi però qualcosa si rompe. Dopo un quarto episodio abbastanza moscio, sale febbrile l’esigenza di due ultime puntate che riescano a rilanciare una storia sulla quale, a quel punto, gravavano le ombre classiche dei prequel: se mi racconti una trama ambientata diecimila anni prima di un’altra storia che già conosco, inevitabilmente il mio interesse non risiederà in ciò che accadrà nel lungo periodo, quanto nella forza dei personaggi e delle passioni del presente, che vanno costruite in sé e per sé.
Succede invece che anche gli ultimi due episodi della prima stagione hanno il freno a mano tirato. Non perché non succeda “niente”, perché non è così, ma perché quello che succede e come viene raccontato non riesce a superare la forza di ciò che avevamo già visto. Non abbiamo quindi la percezione di un’accelerazione che in quel momento sentivamo doverosa, con in più alcuni problemi specifici che sporcano una pulizia fino a quel momento impeccabile.
Fra le cose positive metterei sicuramente le vicende degli Harkonnen in quanto famiglia. Funziona bene il rapporto fra le sorelle Valya e Tula, con la seconda teoricamente soggiogata alla prima, ma comunque capace di prendersi la libertà di proteggere il figlio nato inaspettatamente dalla relazione con un Atreides.
Così come funzionano certi personaggi di contorno come l’inacidito zio Evgeny, interpretato da Mark Addy (già Robert Baratheon di Game of Thrones), e il timido ma ambizioso Harrow, burattino nelle mani della zia Valya.
In generale, funzionano anche le vicende delle giovani Bene Gesserit (mai chiamate con questo nome, peraltro), che ben dipingono la spietatezza di Valya ma anche una certa sua convinzione di essere effettivamente nel giusto, in quanto a capo di una rivoluzione silenziosa che è sì legata a concetti molto scientifici di eugenetica, ma si porta dietro anche un’idea di destino e scopo che ben esemplifica la mescolanza di futuro e passato, fantascienza tecnologica e fanatismo religioso, che è una delle chiavi della fama di Dune.
Poi però ci sono anche cose che non funzionano. In generale, alcune scene che nelle intenzioni dovevano essere molto potenti, subiscono il peso di altre sequenze simili viste in precedenza: Desmond più bruciare tutta la gente che vuole, ma non avrà mai lo stesso impatto di bruciare un bambino come nel primo episodio. Allo stesso tempo, la furia di Valya contro le sorelle che non si piegano al suo volere (in una scena comunque ben girata) non regge il confronto con Tula che ammazza l’uomo di cui si era innamorata, nonché quasi tutta la famiglia di lui.
Caso emblematico di alcuni disordini non previsti è la vicenda dell’imperatore Corrino. Benissimo raccontare di questo regnante tecnicamente potentissimo, ma in realtà schiavo delle manipolazioni delle Bene Gesserit. La scena in cui Valya svela all’imperatore la sua debolezza, dopo che le donne della Sorellanza avevano guidato segretamente la sua vita fin da quando era ragazzo (comprese la scelta della moglie e dell’amante), è sicuramente fra le migliori della stagione.
E però ci sono anche cose che non tornano, o che sembrano quanto meno forzate. Quando Valya vuota il sacco, in quel momento Corrino ha ancora pieno controllo del suo esercito, che potrebbe usare per far ammazzare Valya e tutte le sue adepte, o quanto meno provarci. Non solo non lo fa, ma addirittura sceglie di uccidersi perché, così ci spiegano, il controllo sulla propria morte era l’unica cosa che gli rimaneva, dopo aver scoperto che la sua era stata la vita di una marionetta.
Perdonatemi, ma non ci credo: non credo cioè al fatto che quest’uomo, che ripeto ha ancora tutti i poteri di un imperatore, non si rivolga alla vendetta e preferisca un suicidio che, in quel momento, per come ci avevano raccontato i personaggi fin lì, non credo proprio abbia senso.
(Nel caso ve lo steste chiedendo, non mi interessa quello che accade o non accade nei libri, mi interessa quello che funziona o non funziona nella serie tv, e perché)
Ma non è l’unica sporcatura di queste ultime fasi, probabilmente dettata dalla fretta di dover accumulare molti eventi in pochi episodi. Il momento che più mi ha fatto storcere il naso riguarda la decisione di Valya di farsi arrestare per poter così raggiungere la principessa, in quel momento in catene.
Valya accetta di essere condotta in prigione, e poi usa la Voce per liberarsi delle guardie e liberare la principessa.
Poco prima, però, la notizia del suo arresto era arrivata all’imperatore e a Desmond, che conosce perfettamente il potere della Voce, perché l’ha sperimentato sulla sua pelle, dimostrando di essere l’unico in grado di resistergli.
Com’è possibile che Desmond, appena ricevuta la notizia, non dica “scusate raga, ma sta cosa che si fa arrestare non mi torna, guardate che quella se apre bocca fa quello che vuole”.
Voglio dire, almeno assicurati che sia imbavagliata, e invece no.
Arrivo quindi alla fine della prima stagione di Dune: Prophecy con una certa sensazione di coitus interruptus. La sfida era complicata, ma i mezzi per fare bene c’erano. E un po’ di bene è stato fatto: per la ricchezza della messa in scena, anche quando si parlava di effetti speciali; per la bravura dei protagonisti (la morte di Corrino ci priva di Mark Strong, che è già un problema di suo per la seconda stagione); per l’effettiva capacità di costruire un insieme di tensioni, di faide, di piccoli ma feroci interessi personali, che riescono a diventare decisivi per un’intera società multiplanetaria.
Mi spiace solo che la curva ascendente vista nella prima metà, in termini di suspense, aspettativa, impatto puro e semplice, abbia sbandato nella seconda parte, tra forzature e decisioni discutibili, al punto che nemmeno l’incontro fra Tula e Desmond, rivelatosi suo figlio, riesce a diventare una scena madre come era probabilmente nell’intenzione degli autori, rimanendo un po’ soffocata, buttata lì.
Tre giorni prima del season finale, Dune: Prophecy è stata rinnovata per una seconda stagione. Torneremo volentieri su Arrakis, “patria” della saga e punto di approdo dei protagonisti nell’ultima scena, ma pretenderemo una gestione migliore, fosse anche più furba, di tutta la faccenda.