No Good Deed su Netflix – Il ritorno di due vecchi amici nostri di Diego Castelli
Lisa Kudrow e Ray Romano protagonisti di una comedy misteriosa che forse è più un mistero commedioso
La wikipedia inglese la definisce una “dark comedy”, quella italiana propende invece per “thriller, giallo”.
Il titolo inglese, traducibile come “nessuna buona azione”, non è di per sé indicativo di un genere, e Netflix inserisce lo show sotto i tag “Drammi Tv” e “Commedie Tv” (così non vale però).
E in tutto questo, i due principali protagonisti (ma non solo loro, nel cast) sono due delle facce comiche più famose del piccolo schermo americano, soprattutto negli anni a cavallo fra anni Novanta e Duemila, periodo nel quale si aggiudicarono un Emmy a testa proprio grazie alle famosissime sitcom cui partecipavano.
Stiamo parlando di No Good Deed, nuova serie (molto) mistogenere di Netflix, creata da Liz Feldman, già madre di Dead To Me, e interpretata da Lisa Kudrow e Ray Romano, rispettivamente Phoebe di Friends e Raymond di Everybody Loves Raymond, a cui si aggiungono altri nomi importanti come Luke Wilson e Linda Cardellini.
Di base, il concept è abbastanza semplice: una coppia decide di vendere la sua bella casa a Los Angeles, e tre altre coppie le mettono gli occhi addosso, sapendo che sarà un investimento piuttosto oneroso, ma tutte affascinate da un posto che pensano potrà lanciarli verso un futuro di felicità e completezza, al di là dei diversi problemi familiari, professionali ed economici che ogni nucleo si porta dietro in maniera più o meno evidente.
Problemi che non risparmiano nemmeno i due protagonisti / padroni di casa, che hanno diversi scheletri nel loro armadio, traumi passati da risolvere, galeotti pericolosi che rispuntano dal nulla e un rapporto vagamente morboso con l’abitazione che pure tentano di vendere.
No Good Deed va inserita nell’ormai ampio catalogo di miniserie con cui Netflix (ma è un ragionamento applicabile anche ad altre piattaforme) cerca di dare lustro alla propria offerta attraverso contenuti di facile fruizione, rapido compimento, che non lasciano per forza l’obbligo di molte stagioni e gravosi impegni per autori e cast.
Prendo un po’ di attori e attrici importanti, li piazzo in testa a un racconto interessante, faccio vedere quanto è bello essere abbonati, e poi passiamo al prossimo progetto, dando l’impressione, nemmeno troppo campata per aria, che ci sia sempre “qualcosa di nuovo da guardare”.
È un modello di business che non ha nulla di peccaminoso, e che è capace di produrre effettivamente una massa di prodotto in cui è possibile trovare titoli buoni e meno buoni.
Di base, No Good Deed andrebbe inserito nella lista dei buoni (molto babbonatalesca, questa cosa), perché effettivamente si porta dietro degli elementi di interesse.
Il concept di per sé funziona, e c’è un evidente (e gradito) tentativo di rendere interessanti sia le varie storie singole, sia il modo in cui, non è un grande spoiler, quelle storie singole finiscono con l’intrecciarsi anche oltre il semplice concetto di un gruppo di persone che ruota intorno allo stesso immobile.
La sceneggiatura prevede molti twist e sorprese, che come accennato riguardano non solo la trama in sé e per sé e i misteri che nasconde, ma anche le varianti di tono, con le discese nel drama commovente e sentito, subito compensate da scatti di ritmo e di commedia che tolgono pesantezza e che vengono ben sostenuti da un cast sufficientemente attrezzato per gestire queste oscillazioni d’atmosfera.
Il tutto in un racconto familiare che parla sì di compravendita di case, ma anche di radici, di valori, e di tutte le cose che facciamo, sane e meno sane, per gestire i nostri traumi irrisolti, nella costante necessità di trovare un appiglio che ci consenta di andare avanti e aprire nuove pagine per la nostra vita.
Detto questo, però, No Good Deed non è nemmeno un capolavoro imprescindibile.
C’è un tema di fondo, più complessivo e meno puntualmente definibile, che riguarda il semplice fatto che non c’è niente di davvero memorabile, né in termini di scelte prettamente narrative, né in termini di singoli dialoghi e battute.
La sceneggiatura fatta a twist tiene alto il ritmo e si lascia seguire volentieri, ma non abbiamo l’impressione di vedere cose che non abbiamo già visto altrove, in una salsa o nell’altra.
Se poi guardiamo più nello specifico, troviamo un po’ di problemi di pesi compositivi, con le quattro storie principali trattate con tempi e importanza diversi, abbastanza da spezzare l’ideale armonia della struttura, e una gestione non perfetta di quella famosa alternanza fra comico e drammatico di cui si diceva. La sfida per far ridere ma anche commuovere è nobile e, quando riesce, rimane in testa a lungo (viene in mente Bill Lawrence, da Scrubs a Ted Lasso), ma è anche dannatamente difficile, perché le risate del minuto 1 possono rendere meno credibili le lacrime del minuto 2, che a loro volta annacquano le risate del minuto 3.
Da questo punto di vista, No Good Deed non riesce a tenere sempre la barra dritta, più volte sbanda e barcolla, poi riprende il filo del discorso, poi si smarrisce di nuovo, infine approda a pucciosità che erano palesemente molto volute, ma non sempre adeguatamente sostenute.
In definitiva, No Good Deed è una serie ascrivibile all’ormai ampio catalogo delle serie “medie” di Netflix, o medio buona se si guardano alcuni aspetti, e medio bassa se si guardano altri.
A evitarla non si perde niente, ma nemmeno si rimane tragicamente delusi a darle una chance.
Soprattutto, per i nostalgici delle sitcom anni Novanta, quelle due facce meritano ancora il nostro affetto, senza contare che sono proprio due attori di livello.
Perché seguire No Good Deed: per la storiella interessante e per un cast adorabile da trent’anni a questa parte.
Perché mollare No Good Deed: c’è una certa sensazione di vorrei ma non posso, di potenziale in parte sprecato.