Like a Dragon: Yakuza – Su Prime Video un adattamento meh di Diego Castelli
Se giri una serie sulla mafia giapponese del 2000, non necessariamente la devi girare col livello del 2000
Oggi mi trovo in una di quelle situazioni di leggero imbarazzo, che derivano dal non essere esperto di una cosa di cui “dovrei”.
Perché se è vero, come è vero, che non si può aver letto tutto e visto tutto, e quindi conoscere (per esempio) ogni singolo romanzo da cui è tratta ogni singola serie, è altrettanto vero che se ti vanti di essere un videogiocatore di lungo corso e poi non hai mai nemmeno sfiorato l’importante saga videoludica da cui è tratta la serie di oggi, beh, finisce che ti senti in difetto.
Purtroppo, però, non ho proprio avuto il tempo di recuperare personalmente i NOVE giochi di cui si compone la serie Yakuza (senza contare remake e spin-off) prima di recensire i primi tre episodi di Like a Dragon, la serie di Prime Video che adatta proprio quel lungo franchise, nato nel 2005.
Quindi in parte ci affideremo a cose lette altrove, e in parte alla semplice visione di una serie che si può serenamente guardare senza aver giocato niente.
Che poi valga la pena o no, ehm, ora vediamo.
Creata da Sean Crouch e Yugo Nakamura, Yakuza racconta due diversi piani temporali.
Nel primo, corrispondente al 1995, due ragazzi e due ragazze, capitanati dall’ambizioso e combattivo Kazuma (che poi è il protagonista storico dei videogiochi, qui interpretato da Ryoma Takeuchi), decidono di compiere un’articolata rapina in una sala giochi. Il colpo riesce, ma i quattro scoprono che dietro le quinte del locale c’era la Yakuza, la famigerata mafia giapponese, che ben presto li scova e minaccia di ucciderli. Solo l’intervento dell’anziano e rispettato Shintaro Kazama salva i ragazzi, che poi, per sdebitarsi con la Yakuza, chiedono espressamente di entrare a farne parte. Proprio Kazuma, interessato a diventare forte e potente, si offre come combattente per incontri clandestini, per sfogare la propria irruenza e guadagnare rispetto.
Il secondo piano temporale riguarda il 2005, e vede molte posizioni ribaltate. Kazuma, per esempio, è in galera da non si sa quanto, ed esce proprio in quel momento, desideroso di rientrare nel giro e capire cosa è accaduto nel frattempo. I suoi amici, intanto, hanno fatto carriera in vario modo, penetrando nel tessuto della mafia.
Con questo doppio binario, la serie si garantisce sia una storia di crescita e riscatto, per quanto criminale, sia invece una storia di ritorno, di vendetta postuma, stuzzicando gli spettatori sul mistero di quello che è accaduto in mezzo e apparecchiando la tavola per molte scene d’azione, intrighi, tradimenti, e una certa epica oscura che è tipica di questo genere.
E fin qui, tutto bene.
Il problema che azzoppa Like a Dragon: Yakuza è estremamente semplice, lineare, banale al punto che è quasi strano scriverne in una recensione che si suppone analitica.
Senza girarci troppo intorno, Like a Dragon non è una serie di alto livello, e lo si vede in quasi tutte le sue componenti.
In termini di pura forza produttiva dà una discreta impressione di povertà, sia in termini concreti, scenografici, sia in termini di scelte visive, con questa fotografia molto piatta e vecchiotta e nessuna particolare nota di stile. Anche le scene d’azione, che potrebbero essere un fiore all’occhiello di un prodotto come questo (e che erano una discreta parte dell’intrattenimento fornito dai videogiochi), non spiccano in alcun modo, ondeggiando fra il decente e il già visto, quando non proprio il mediocre.
Se volessimo dirla con un termine che vale solo per noi italiani, Like a Dragon sa di fiction, nel senso un po’ deteriore che riserviamo alla serialità da generalista nostrana, che ci fa quell’effetto casereccio che può naturalmente piacere a una grande parte del pubblico italiano, ma che fa storcere il naso agli amanti della serialità americana e internazionale, e che comunque funziona soprattutto quando, appunto, racconta storie e personaggi italiani.
Da questo punto di vista c’è una specie di cortocircuito, perché Like a Dragon è una serie giapponese, realizzata da giapponesi, che sembra parlare soprattutto a un pubblico giapponese. Un po’ come tutte le serie “local” di Netflix, che non necessariamente prevedono la visione della serie brasiliana da parte del pubblico francese, anche se naturalmente ci sperano sempre.
L’aspetto, la recitazione, anche il ritmo piuttosto blando, sembrano tutti riportare a un certo modo giapponese di fare cinema e televisione. Il che però diventa un problema quando si sta facendo l’adattamento di un franchise di videogiochi che era effettivamente molto giapponese, ma che era pure riuscito a diventare famoso nel mondo, in un medium in cui la “giapponesità” è spesso più premiata di quanto non succeda in altre forme espressive.
E il paradosso è che mancano anche dei pezzi. Come ha scritto l’amico Andrea Peduzzi su IGN, i giochi avevano anche una componente di leggerezza e comicità (peraltro tipica di molti anime anche drammatici) che stemperava certe crudezze del racconto, e che forse sarebbero state ben accette anche in una serie che, se deve avere l’estetica di Don Matteo, bene farebbe a riconoscere i suoi limiti facendoci anche ridere.
Invece Like a Dragon ci crede tanto, tantissimo, non lascia nulla alla leggerezza, e pretende che noi ci si immerga completamente in una storia che vuole trasmettere grande epica criminale, ma che appunto, vuoi per limiti tecnici, vuoi per certe barriere culturali, ci sembra ambientata a Gubbio.
Arriva quindi inesorabile il momento dei confronti, che rischiano di essere impietosi. Se parliamo di mafia, in questi giorni stiamo seguendo la prima stagione di The Penguin, che a Yakuza è superiore da praticamente ogni punto di vista che vi venga in mente. E se guardiamo invece ai prodotti espressamente asiatici, pur finanziati e distribuiti da piattaforme occidentali, allora non siamo nemmeno lontanamente dalle parti di Shogun o di Pachinko, che pur restando fedeli a una certa impostazione orientale (per esempio nel già citato ritmo compassato), posso vantare uno spessore narrativo, attoriale, produttivo, completamente diverso.
Insomma, Like a Dragon potrà forse incuriosire chi era già appassionato della saga di videogiochi (anche se mi viene il dubbio che per loro la delusione potrebbe essere pure maggiore), ma se masticate serie tv tutti i giorni, spaziando fra le piattaforme e fra i generi, è difficile non vedere in Yakuza una pochezza generale che ce la farà dimenticare presto.
L’impressione, anzi, è che senza il “gancio” del videogioco, non avrebbe proprio avuto senso parlarne.
Perché seguire Like a Dragon: Yakuza: L’idea del doppio piano temporale è una base narrativa efficace per la storia che vuole raccontare.
Perché mollare Like a Dragon: Yakuza: in termini di produttivi e di resa sullo schermo, ci trasmette una brutta sensazione di “fiction”.