The Franchise – È tempo di parodiare Marvel & Co. di Diego Castelli
Prodotta da Armando Iannucci e Sam Mendes, The Franchise ci porta nel dietro le quinte di un grande e incasinato carrozzone cinematografico
Prima o poi ci si doveva arrivare. Dopo ormai diversi anni in cui le grandi saghe supereroistiche sfornano flop a ripetizione, incapaci di trovare nuovi spunti e nuove strutture per riciclare i successi del passato (e dove l’unico film che fa un successone pazzesco, Deadpool & Wolverine, è una parodia), era forse inevitabile che arrivasse qualcuno, anche sul piccolo schermo, a fargli il verso.
E non parliamo di una presa in giro dei supereroi, ma proprio di uno sguardo ironico e cinico sul carrozzone produttivo che sta dietro quelle enormi saghe tutte interconnesse e, troppo spesso, indistinguibili sul piano artistico nei loro singoli componenti.
Oggi quindi parliamo di The Franchise, serie di HBO che arriva da un creatore con buona gavetta ma ancora non famosissimo come Jon Brown, spalleggiato però dai due produttori di grande esperienza come Armando Iannucci (creatore di Veep, serie capace di vincere 17 Emmy Awards) e Sam Mendes, regista di culto che non ha nemmeno bisogno di presentazioni.
The Franchise, come nome suggerisce, racconta proprio di una grande saga supereroistica, che raccoglie al suo interno molti film e molte maestranze, tutte unite (in teoria) nella costruzione di un grande racconto complessivo capace di generare entusiasmi e, soprattutto, profitti.
Il punto di vista principale è quello di Daniel (Himesh Patel), un assistente alla regia impegnato ad aiutare un famoso e talentuoso regista tedesco (Eric, interpretato da Daniel Brühl) impegnato a girare un film secondario del grande franchise proprio nello stesso momento in cui, altrove, stanno realizzando un capitolo molto più importante.
Giusto per capirci, un po’ come se guardassimo la realizzazione di un Ant-Man, mentre a pochi chilometri di distanza stanno girando un capitolo di The Avengers.
Di cosa parli davvero il film ci interessa relativamente, e anzi c’è un palese tentativo di rendere il tutto piuttosto confuso e grottesco, con uomini pesce e “uomini muschio” impegnati a gravitare intorno a questo protagonista, Tecto (impersonato da Billy Magnussen), di cui nemmeno capiamo bene le motivazioni, i poteri e quant’altro.
Quello che conta, naturalmente, è che The Franchise è una comedy, e come tale si popola di personaggi tutti estremizzati, ognuno capace di essere molto utile alla causa, e contemporaneamente completamente dannoso.
Così, il regista è effettivamente molto bravo, ma anche legato a un’idea di autorialità che mal si sposa con i dettami della produzione. L’inviato di quella stessa produzione è un bastardo che vuole solo vedere la macchina girare e fare soldi. Gli attori del film sono prime donne (espressione diventata un po’ sessista mi sa) ognuno con le proprie idiosincrasie e spigolosità (da citare almeno il veterano Richard E. Grant, che qui interpreta una specie di grande saggio alieno che interrompe continuamente le riprese perché non gli va mai bene niente). La script supervisor (Jessica Hynes) è una zerbina insicura e goffa che agisce più che altro da assistente personale del regista. La nuova assistente di Daniel (Lolly Adefope) fa ridere più che altro perché non sa mai cosa fare, e ci serve per sentire sulla nostra pelle il peso di un carrozzone completamente disordinato e casinista.
Per quanto a noi italiani possa ricordare Boris, per ovvi motivi di ambientazione e anche per il fatto che affronta temi sovrapponibili (specie nella quarta stagione della serie italiana, che andava su Disney+ prendendo in giro gli algoritmi), The Franchise è una commedia meno “di pancia” rispetto a Pannofino & Co., è una serie da “risate a denti stretti”, giusto per citare la Settimana Enigmistica, gioca su un piacere più intellettuale e surreale, e si prende anche lo spazio per piccoli tocchi di classe vera.
Da questo punto di vista, giova sottolineare che il pilot è diretto proprio da Sam Mendes, e si apre con un lungo e ricco piano sequenza che, oltre a sfoggiare la bravura del regista premio oscar per American Beauty, ha la funzione di buttarci a (uomo) pesce dentro il caos ingestibile della produzione del film, fra attori a cui vengono attacchi di panico sotto il trucco prostetico, e altre maestranze che vanno annusate per vedere se sono fatte di marijuana (che andrebbe bene) o di alcol (che sarebbe un male).
Naturalmente, poi, fra una scenetta comica e l’altra, c’è anche un ragionamento più ampio, non necessariamente insistito e urlato, ma molto presente: The Franchise racconta anche della morte dell’autorialità, e lancia una critica precisa a un cinema commerciale che diventa commerciale come mai è stato prima, al punto da annullare qualunque creatività individuale per sostituirla con la semplice esecuzione di direttive che piovono dall’alto, da oscuri architetti della saga che sembrano incapaci di lasciare qualunque spazio all’arte ma, anche, di contemplare e gestire i problemi delle singole produzioni.
Poi certo, non è un discorso stucchevole e troppo retorico, tanto è vero che lo stesso regista del film alla base della serie è un personaggio sopra le righe, volutamente macchiettistico, che non dà esattamente l’idea di un tipo molto affidabile, anche qualora gli venisse tolta la stretta aziendalista che vuole rendere il suo film un tassello indistinguibile dagli altri.
È però evidente che The Franchise arriva anche a denunciare un problema strutturale e molto contemporaneo: finché la grande saga ci diverte, funziona e porta la gente al cinema, la discussione sul fatto che ammazzi la creatività individuale dei singoli autori può passare in secondo piano, o per lo meno diventare solo uno dei temi del discorso. Quando però le cose cominciano ad andare male, e accanto alla non-autorialità ci sono anche i flop al botteghino, ecco che qualcosa nel meccanismo si è rotto, e da qualche parte deve risorgere un’idea di cinema che abbia un qualche valore. O, se ancora non c’è, quanto meno un’idea di televisione che quel problema lo denunci.
Dopo il pilot, The Franchise non è, o non è ancora, una comedy spaccatutto, perché non tutte le sue trovate comiche sono così efficaci, e perché ancora non si capisce effettivamente quanto peso voglia dare all’ironia nuda e cruda, alla costruzione di una storia credibile, o altro ancora, tutte intenzioni fra le quali è necessario trovare un equilibrio.
È però una serie certamente interessante, forse perfino “necessaria” in questo momento storico, costruita da autori che sappiamo essere di livello.
Teniamola d’occhio.
Perché seguire The Franchise: il suo sguardo cinico e ironico sul mondo delle saghe supereroistiche sembra molto centrato e molto sul pezzo.
Perché mollare The Franchise: in quanto comedy, potrebbe essere un pochino più divertente.