Slow Horses 4, Gary Oldman e le gioie della ripetizione di Diego Castelli
La quarta stagione pare uguale alla terza e non potevamo chiedere di meglio
ATTENSIONE! SPOILER SUI PRIMI DUE EPISODI DELLA QUARTA STAGIONE
Se c’è una cosa contemporaneamente bella e brutta del provare a fare critica e analisi dei prodotti culturali, è che, entro una certa misura, vale sempre tutto e il contrario di tutto.
Tu puoi anche provare a studiare, imparare, costruire nella tua testa uno schema anche molto articolato che cerchi di spiegare dove sta la qualità, cosa sia, dove sia il confine fra il bello e il brutto, e sulla base di quello schema modellare per te stesso un’identità, un modus operandi, uno stile di analisi.
Poi però, dal nulla, ti arriva quella serie, quel film, quel romanzo, che si mette a fare delle cose che tu sai benissimo che dovresti criticare, o che per lo meno dovrebbero stridere con tutta l’impalcatura concettuale che hai costruito fino a quel momento, perché fanno almeno una cosa che tu, nei mesi e anni precedenti, hai sottolineato con la matita rossa e l’espressione da professorino rompiballe.
Solo che, sorpresa, scopri di non poter avanzare quella critica, perché quel “problema”, in questo caso, problema non è, e quindi bisogna prendere la questione da un altro punto di vista.
È quello che succede con i primi due episodi (ma immagino anche i successivi) della quarta stagione di Slow Horses.
Visto che con l’introduzione l’ho fatta un po’ lunga, andiamo al nocciolo della questione: nel suo quarto ciclo di episodi, Slow Horses sembra esattamente identica a come è sempre stata.
E visto che qui sopra siamo da sempre fan delle serie che sanno evolvere, modellarsi al proprio interno, finire in posti diversi rispetto a dove avevano iniziato, questo potrebbe rappresentare un problema.
A volte questo ci (mi) ha portato a muovere piccole critiche anche a serie effettivamente di altissimo prestigio: recentemente è capitato con The Bear, la cui terza stagione resta su un livello molto alto se paragonata a tutte le altre serie che ha intorno, ma che suona tutto sommato “normale” se paragonata a una seconda che era riuscita a fare più passi in avanti rispetto a quella che l’aveva preceduta.
A rigor di logica, quindi, vedere che l’inizio della quarta stagione di Slow Horses ripropone grosso modo le stesse dinamiche delle precedenti, dovrebbe portarci ad alzare il ditino e dire “sì, ok, bello, però servirebbero anche un po’ di novità”.
Invece non solo non succede, ma anzi ringraziamo tutte le divinità a noi più congeniali, per il fatto che Slow Horses è esattamente quello che era, e di cui sentivamo la mancanza.
Varrebbe la pena sottolineare, a questo punto, che la storia della serialità televisiva è fatta in larghissima parte dalla ripetizione ossessiva di personaggi, ambientazioni, strutture narrative. Si potrebbe arrivare a dire che quell’aspetto è proprio ciò che caratterizza una serie tv.
La Signora In Giallo non sarebbe lo show leggendario e amatissimo che è, se ogni puntata non fosse al 90% identica alle precedenti, e se Jessica Fletcher non fosse un personaggio sostanzialmente immutabile, per lo meno nel ricordo e nella percezione collettiva.
Questa tendenza alla ripetizione, questa abitudinarietà, è l’anima stessa della serialità generalista, e se oggi ci capita di considerarla una cosa “vecchia”, è solo perché nel corso del tempo il mercato seriale si è aperto a opere di taglio autoriale più elevato, che sfruttavano il meccanismo della serialità non per creare semplicemente un’abitudine rassicurante, ma per costruire grandi archi narrativi che avessero più respiro e libertà d’azione rispetto al cinema.
Il fatto però che abbiamo finito col considerare questa ultima evoluzione come quella artisticamente più rilevante e meritevole di attenzione e analisi, non significa che certi meccanismi psicologici che garantivano il seguito delle serie vecchia scuola siano spariti, o abbiano necessariamente meno valore.
Slow Horses, che non è una serie generalista (va su Apple TV+) e non ha nemmeno le singole puntate verticali della Fletcher o di Law & Order, è però una serie che ha trovato un accrocchio così preciso, così perfetto (e il discrimine è proprio questo), che non ha realmente bisogno di evolvere, e che anzi ha trovato perfino un ritmo produttivo particolare (negli ultimi anni, è probabilmente l’unica serie di alto profilo le cui stagioni arrivano meno di un anno dopo le precedenti, con tanto di trailer della stagione successiva già dopo la fine dell’ultimo episodio di quella prima) che sembra simboleggiare il suo essere una macchina perfettamente funzionante, che procede senza intoppi, senza pause autoriali, senza bisogno di grandi riflessioni.
Se dovessi cercare un simbolo di questo meccanismo, sarei costretto a trovarne uno un po’… fanciullesco?
Sto parlando delle scorregge di Jackson Lamb, il personaggio interpretato da Gary Oldman.
Normalmente, le flatulenze non sono (più) considerate un artificio comico particolarmente efficace o anche solo dignitoso ed elegante, eppure con Lamb ci vanno benissimo. Anzi, per come è costruito il personaggio, per il modo in cui sta in scena e interagisce con gli altri protagonisti, per quella che è la sua identità, non solo non ci disturba il fatto che due o tre volte a stagione debba sganciarne una, ma ce lo aspettiamo, lo pretendiamo perfino, perché sappiamo che ogni volta quel suono così ridicolo arriverà nel momento più opportuno, quello in cui Lamb deve smontare una tensione narrativa che altrimenti farebbe scivolare la serie in un territorio troppo serioso, con il quale non vuole contaminarsi eccessivamente.
In questi primi due episodi della quarta stagione, Lamb scarica i suoi gas di fronte a una detective che, per quello che ne sappiamo in quel momento, sta investigando sulla morte di River, uno dei protagonisti principali della serie e personaggio amatissimo. E anche se, per come è stata girata la scena della sua morte, dentro di noi sappiamo che in realtà non è affatto passato a miglior vita, sentiamo comunque una trepidazione pericolosa, un’emozione che potrebbe alzare in maniera indebita il nostro battito cardiaco.
Ed è qui che Lamb, come un infermiere volonteroso, arriva in nostro soccorso sganciando un peto umido che rimette subito le cose a posto, e a cui la detective reagisce con una frase tipo “ma riesci a farle a comando?”, che è una domanda che effettivamente avremmo sempre voluto fare a Lamb, e che finalmente qualcuno gli ha posto.
Perfetto.
Naturalmente, l’idea di un qualche immobilismo di Slow Horses non va nemmeno intesa alla lettera.
In questi primi due episodi, per esempio, vengono introdotti due nuovi personaggi interpretati da attori di grande peso e carisma: Claude, nuovo e inetto capo di Diana, interpretato da James Callis (che i fan di Battlestar Galactica ricordano nei panni di Gaius Baltar), e un uomo misterioso con il volto del miticissimo Hugo Weaving, già icona della saga di Matrix e de Il Signore degli Anelli.
Allo stesso tempo, sul fronte strettamente narrativo, l’esplosione di una bomba in centro a Londra, e il tentativo di omicidio del nonno di River, che col passare di stagioni ed episodi scivola sempre di più nella demenza senile, rimescolano qualche carta e danno combustibile per nuove storie, pericoli, potenziali sorprese.
Quindi insomma, Slow Horses non è esattamente come Colombo o La Signora in Giallo, è comunque una serie degli anni Venti di questo secolo.
E però, molto più che con altri show in cui vedi il tentativo, a volte riuscito a volte meno, di rinnovarsi costantemente per paura che la gente si annoi, Slow Horses è sempre uguale a sé stessa, e ha una fiducia incrollabile nel fatto che alcune cose non vanno cambiate, ma anzi devono rimanere esattamente come sono, anche quando sembrano arrivare all’esagerazione e al parossismo.
Così, Lamb è sempre Lamb, un vecchio bastardo disulluso dall’igiene discutibile, empatico come un cassettone, eppure intelligente e arguto. River è il solito personaggio col complesso dell’eroe che si lancia in qualunque impresa gli sembri meritevole del suo impegno. Roddy è il solito nerd-hacker con ancora meno empatia di Lamb, che appena sa della morte di River gli ruba il pc per aggiungerlo alla sua postazione.
E potremmo continuare.
Sia chiaro, mi rendo perfettamente conto che questo discorso possa sembrare, se non campato per aria, quanto meno non così peculiare, nella misura in cui tutti i personaggi principali di tutte le serie, salvo eccezioni molto particolari, mantengono certi loro tratti fondanti per tutta la durata dello show di cui sono protagonisti.
C’è però una differenza sottile, che più che loro riguarda noi. Slow Horses cambia probabilmente meno di altre serie, ma a stupire è il fatto che non ce ne frega niente, che non siamo qui a dire agli autori che, arrivati alla quarta stagione, servirebbe qualcosa di diverso.
Anzi, i primi due episodi della quarta stagione ci sembrano perfetti anche perché sono in larga parte identici a ciò che già conoscevamo.
Come si spiega questo fatto? Perché Slow Horses dovrebbe essere differente dalle altre, ed essere giudicata diversamente?
Se sperate in una risposta secca, non ce l’ho. In parte dobbiamo prendere questo risultato (che non è nemmeno oggettivo, ovviamente, vi sto dando una mia opinione) come simbolo di una fluidità intrinseca dei gusti, dei prodotti, dei momenti.
D’altra parte, però, possiamo anche dirci che Slow Horses ha effettivamente trovato una sua “perfezione”, cioè una caratterizzazione dei singoli personaggi e delle relazioni fra di loro così calibrata, che ogni sua reiterazione ci pare migliore, o meno dannosa, di un suo cambiamento. Ed è proprio quella reiterazione che permette a un personaggio come Lamb di scolpirsi con forza nella nostra memoria, diventando icona e garantendo a Gary Oldman una meritatissima nomination ai prossimi Emmy Award 2024, la cui cerimonia di premiazione avrà luogo pochi giorni dopo la pubblicazione di questo articolo.
Infine, c’è qualcosa che riguarda noi, e forse il periodo storico che stiamo vivendo. Non c’è solo caos nel nostro mondo reale, fra guerre, crisi economiche, tensioni sociali e culturali. C’è caos anche nel mondo seriale, con un sacco di prodotti nati e uccisi nel giro di una stagione, con molte piattaforme in cerca di nuove identità e missioni politiche, con ritardi, e rimandi, e scioperi.
In questo contesto arriva Slow Horses. Che esce con cadenza regolare, anzi in anticipo, che ha una sua identità precisa e riconoscibile, che cambia il meno possibile di una formula che sa essere perfettamente funzionante, che mantiene ciò che promette.
In una parola, è rassicurante. Ma non rassicurante per il pubblico di Don Matteo, bensì per noi, per quelli che si vantano di conoscere bene il prodotto televisivo, che cercano le novità e se le segnano su appositi siti muniti di calendario, che si accendono sui social per attaccare o difendere questo o quel prodotto.
Anche questo pubblico, che si impegna per essere consapevole e “sul pezzo”, ha bisogno di rassicurazioni, di stabilità, di abitudine. E se qualcuno, pur di trovarla, si lascia andare ai guilty pleasure alla Bridgerton o, peggio, Emily in Paris, con Slow Horses ci va pure di lusso, perché abbiamo l’abbraccio rassicurante delle serie di una volta, ma dentro uno show che resta così ben fatto, da non farci sentire minimamente in colpa se decidiamo di dedicargli il nostro tempo.
Poi certo, l’abbraccio di Jackson Lamb più che rassicurante suona unto, però insomma, ci siamo capiti.