17 Luglio 2024

The Acolyte – Guizzi finali dopo molti imbarazzi di Diego Castelli

Dopo un esordio interlocutorio, The Acolyte è sprofondata in un abisso di pessima sceneggiatura, nonostante un finale discreto

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ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE DI THE ACOLYTE

Alcune settimane fa, in occasione della recensione dei primi due episodi di The Acolyte, avevo parlato fin dal titolo di un esordio “prudente”, come prudente fu la recensione stessa.
Cosa voleva dire prudente? Voleva dire che The Acolyte metteva in campo una buona messa in scena, alcune idee rischiosette ma stimolanti (come una descrizione dell’Ordine Jedi meno fiabesca e manichea, e più burocratica, di quello a cui eravamo abituati), il tutto però nemmeno stupire, e lasciando anche l’impressione di poter finire male.
Insomma, un inizio da prendere con le pinze, al netto del fatto che, fin da subito, in rete era possibile trovare estimatori sbrodolanti e contestatori a prescindere, come ormai sempre succede.

Purtroppo, alla fine della prima stagione tocca essere delusi: quel poco di nuovo che The Acolyte ha provato a portare nell’universo di Star Wars è sembrato più che altro dipendere da agente politiche esterne e poco coerenti, ma non è stata nemmeno in grado di ricalcare ciò che Star Wars è sempre stata o dovrebbe sempre essere, cioè un’appassionate avventura interplanetaria piena di personaggi carismatici che brandiscono armi da sogno.

Vediamo qualche dettaglio.

La maggior parte dei problemi di The Acolyte non riguarda la sua componente strettamente visiva. Il valore produttivo c’è, e il canovaccio starwarsiano fatto di buffe creature, mondi lontani e spade laser è rispettato in maniera abbastanza convincente. Di nuovo, senza grandi vete, ma senza nemmeno improvvisi baratri.

Poi certo, a voler cercare il pelo nell’uovo dovremmo dirci che le coreografie delle scene d’azione non sono niente di clamoroso, e che alcune scelte di casting hanno lasciato a desiderare, non ultima proprio la protagonista: Amandla Stenberg, che interpreta le due gemelle protagoniste Mae e Osha, riesce nel non semplice compito di avere sempre la stessa espressione a prescindere dal personaggio e dalla situazione in cui si trova.
Ma anche Lee Jung-jae, diventato famoso con Squid Game e qui interprete del maestro Sol, è sembrato troppo spesso a disagio, indeciso fra la necessità di trasmettere un certo carisma da potente maestro jedi, e il bisogno di mostrare anche fragilità e indecisioni. Meglio di Stenberg (peggio era difficile), ma comunque così così.

Sarebbe però ingeneroso, per esempio, non riconoscere il lavoro di Manny Jacinto, che noi conoscevamo bene per il suo stupidissimo Jason di The Good Place, e che qui invece indossa i panni di un cattivo che, nonostante i problemi della sceneggiatura che vedremo fra poco, riesce effettivamente a costruire un carisma molto smaccato e quasi malinconico, tutto fatto di sguardi e silenzi, ottimo per un personaggio che ci mostra il Lato Oscuro prima di tutto come un’occasione di libertà dalle regole precostituite.

I veri problemi di The Acolyte arrivano, come accennato, dalla sceneggiatura.
È una serie scritta profondamente male, che non riesce quasi mai ad appassionare perché fatica tantissimo a costruire una trama che ci sembri davvero rilevante per i personaggi.
E questo perché, all’interno degli episodi, c’è pochissima coerenza, scarsissima capacità di lanciare indizi che servano a dare spessore al mondo raccontato, per poi diventare rilevanti con l’andare degli episodi.
A parte un paio di grandi direttrici generali, che se non ci fossero sarebbe proprio grave-grave, The Acolyte fa e disfa un sacco di cose nel giro di pochi minuti, togliendoci ogni possibilità di reale coinvolgimento.

E attenzione, non serve nemmeno addentrarsi troppo nel sempre spinoso territorio del woke e della politica.
Certo, sono settimane che molte persone si lamentano di elementi più o meno vistosi come la quasi assenza di personaggi bianchi, o la scelta di dare a Mae e Osha una famiglia fatta sostanzialmente di lesbiche che fanno i figli in provetta.

Per parte mia, e già lo sapete, trovo che Disney abbia ormai da tempo cominciato a scendere una ripida china, in cui la bontà dell’intrattenimento è stata messa in secondo piano rispetto alla necessità di trasmettere messaggi politici assai espliciti.
Ma il tema è che non serve nemmeno tanto stare a battibeccare su questi singoli elementi, che se fossero inseriti in una sceneggiatura degna di questo nome potrebbero essere serenamente difesi a spada tratta.
Solo che la sceneggiatura degna di questo nome non c’è.

Vale la pena di fare una cosa un pochino antipatica, tipo matita rossa della maestra, ma che trovo utile a sostanziare il concetto di “brutta sceneggiatura”, che sennò rischia di rimanere appeso per aria.
In The Acolyte ci sono molte singole scelte del tutto incomprensibili, forzate, pigre, che azzoppano la storia nel suo farsi, che depotenziano il percorso dei personaggi, che impediscono anche alle (non troppe) idee migliori di fiorire nel modo giusto.

Facciamo qualche esempio senza particolare ordine e gerarchia, ma per capirci:
-A un certo punto, già verso metà stagione, la cattivissima Mae, traviata dal suo oscuro maestro, sceglie di lasciar perdere, consegnarsi ai jedi e ribellarsi al suo signore. Senza alcun motivo. E naturalmente, nell’episodio dopo torna sui suoi passi.
-Quando Qimir, ormai svelatosi come sith nel twist più telefonato della storia, e con le motivazioni più banali della storia, cerca di convincere Osha della bontà del suo insegnamento e della rigidità e cattiveria dei jedi, ma lo fa subito dopo aver sterminato a sangue freddo tutti gli amici di lei. In questa situazione, il fatto che lei senta immediatamente la sua influenza suona semplicemente ridicolo.
-Quando le due gemelle si scambiano di posto, con quella scena fin troppo teatrale in cui Mae si taglia i capelli con la spada laser, il gioco dura lo spazio di mezzo episodio (ovviamente, direi, altrimenti Sol e Qimir passerebbero per scemi). La teatralità della parrucchiera fai da te sembra così ancora più stupida.
-D’accordo l’idea di descrivere i jedi come un ordine rigido e burocratico, in cui peraltro non si scopa mai, ma quando il giovane padawan Torbin esce completamente di testa perché vuole tornare a casa sua, quando fino a quel momento i jedi gli stavano semplicemente facendo cogliere delle erbette, ci fa pensare che forse i jedi dovrebbero istituire un test d’ingresso un po’ più stringente, perché così fa ridere.
-A un certo punto Mae (o Osha, boh, non ricordo) vuole resettare il suo droide, e lo fa premendo due pulsanti contempornamente sul robottino stesso. Che cos’è, un cellulare? Ma siete seri? Ma poi deve inserire il pin?
-Ci sono alcune scelte che non rovinano solo The Acolyte, ma si incastrano male nella mitologia di Star Wars: non possiamo guardare Episodio I, apprendere con sgomento che Anakin Skywalker rappresenta il caso più unico che raro di un bambino nato senza padre, ma solo dalla Forza (all’interno di una grande profezia galattica), e poi scoprire in The Acolyte che i bambini creati dalla Forza sono una cosa abbastanza banale, qui ne abbiamo addirittura due, come se fosse normalissima ingegneria genetica (e peraltro, la loro madre le ha create per motivi molto importanti rispetto alla propria congrega, ma appena può dice a Osha che può fare quello che vuole della sua vita).

A questi problemi se ne aggiunge uno a mio giudizio gigantesco, che non riguarda tanto la scrittura quanto il marketing: fin dalle prime fasi di promozione di The Acolyte, Disney aveva molto spinto sulla figura di Carrie-Ann Moss, mitica Trinity di Matrix che qui interpreta la maestra jedi Indara.

Ebbene, se tu hai un’attrice così forte, un simbolo di un certo tipo di fantascienza e di cinema di arti marziali, e poi ammazzi il suo personaggio alla prima puntata, io ti vengo a prendere a casa.
Indara muore in modo abbastanza ridicolo durante il pilot, uccisa da un pugnaletto piccolo piccolo, poi scompare per puntate, e la rivediamo qui e là solo nei flashback in cui parla un casino e combatte pochissimo.

Un personaggio che appare solo nei flashback e che non viene nemmeno ricordato nel finale NON è un personaggio che viviamo come parte integrante della narrazione principale, e tu non puoi dare quello spazio all’attrice sulle locandine e nel discorso che stai facendo sulla serie, per poi propormi questa minestrina striminzita, perché mi sento inevitabilmente preso in giro.

Arriviamo così all’episodio otto, finale di stagione, a cui sono giunto, lo ammetto, senza più alcuna speranza. Fortunatamente, è un finale che rialza almeno in parte la testa.
È forse la puntata migliore dal punto di vista visivo, con quel bell’inseguimento nello spazio, con coreografie dei duelli finalmente convincenti, e con buoni effetti speciali anche quando si tratta di far combattere le due gemelle, ovviamente interpretate dalla stessa attrice.
Ci sono pure singole idee molto riuscite, come il cambio di colore della spada in mano a Osha, al momento del suo passaggio al Lato Oscuro (anche se mi sa che questa cosa, per quanto efficace, cozza apertamente con la lore di Star Wars).

Ma anche dal punto di vista della scrittura si vedono cose migliori, non fosse altro perché, ancora una volta, si percepisce che alcune idee alla base di questa serie erano effettivamente buone e potenzialmente feconde: se guardiamo solo questa puntata, le contraddizioni interne all’Ordine Jedi in quanto istituzione fin troppo “di sistema”, impegnata prima di tutto nella propria sopravvivenza, sarebbero parecchio interessanti, nell’ottica dell’apertura dell’universo starwarsiano a una visione più adulta e complessa, in cui il Lato Oscuro non è qualcosa che semplicemente “capita”, ma può anche essere la diretta conseguenza di un modo sbagliato, da parte dei jedi, di allevare le persone sensibili alla Forza.

Purtroppo, nemmeno questo episodio è però esente da incongruenze e forzature.
Tutta la questione di Osha-Mae intese non come gemelle, ma proprio “la stessa persona”, creata dalla loro madre e poi scissa in due, rimane molto fumosa, e serve più che altro, come accennato sopra, a sporcare l’unicità di Anakin Skywalker, visto che adesso pare che ogni volta che c’è una vergenza nella Forza si possono creare marmocchi.

Ma anche il ribaltamento finale fra le sorelle è molto posticcio. Che Osha passi al Lato Oscuro ci sta, si sente tradita da jedi e quindi passa dall’altra parte (ok, le bugie mi sembrano comunque meno gravi dell’ammazzare tutti i suoi amici, ma vabbè). Anche la morte di Sol per mano sua, con il maestro che di fatto si lascia morire per espiare le sue colpe, può funzionare, per quanto sembri sempre tutto molto affrettato.
Ma che Mae rimanga indietro, e che le venga cancellata la memoria in maniera così violenta, è una cosa che non sta in piedi: perché diavolo non rimane con la sorella? Forse perché Qimir vuole solo un’apprendista e non due? Mi sembra una motivazione priva di senso, e non ne trovo altre, se non quella di costruire una scena che sia “forte” anche se poco centrata.

L’ultimissima scena, naturalmente, è puro fan service, senza per questo voler dare al termine un’accezione negativa: la comparsa di Yoda, con la promessa (ma chi lo sa cosa può succedere con sta serie) che possa diventare un personaggio vero della seconda stagione, sicuramente incuriosisce, ma pone anche una sfida che The Acolyte non può permettersi di perdere.
Yoda è un “Buono Vero”, senza se e senza ma. Se costruisci una serie in cui mostrare le crepe dell’Ordine Jedi (legittimo), Yoda dev’essere uno che combatte contro quelle crepe, non che le alimenta, altrimenti la fanbase viene a cercarti con torce e forconi, anche più di quanto faccia ora.
Capisco che questa sia una critica preventiva che ha poco senso finché non vediamo il prodotto finito, ma capite bene che, dopo una prima stagione che se n’è fregata un po’ di tutto, un po’ d’ansia mi viene.

In conclusione, è difficile non considerare The Acolyte una palese delusione. L’idea di allontanarsi dalla saga degli Skywalker per essere liberi di raccontare altre porzioni dell’universo di Star Wars , approfondendo altre questioni politiche e “magiche”, aveva e ha ancora senso, come ha senso voler dare uno spessore più adulto a un mondo narrativo che nasce fiabesco ma che ha la possibilità di produrre molte sfumature (come visto con l’ottima Andor, per esempio).

Il problema, però, è che The Acolyte non è stata in grado di costruire una storia che fosse di per sé sufficientemente interessante, per colpa di errori grossolani di scrittura, di malagestione dei pesi compositivi (troppi dialoghi e poca azione, tutta concentrata in pochi punti), e più in generale di incapacità di prendere quei due-tre concetti validi, e trasporli in una scrittura che avesse un capo e una coda.

La cosa buffa, con Star Wars, è che nessuno chiede mai a questa saga di essere particolarmente “complicata”. La sua fortuna, anzi, è sempre stata la capacità di offrire dei racconti di grande respiro, ma anche di immediata fruibilità e divertimento. Già troppe volte abbiamo visto il tentativo di fare “di più”, ottenendo però pastrocchi inutilmente arzigogolati.
The Acolyte non fa differenza, e nonostante un finale leggermente migliore ci impedirà di arrivare alla seconda stagione con grande entusiasmo.
Anche perché ok, mi triggeri con Yoda, ma ho paura che lo tratterai come Trinity…



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