9 Luglio 2024

The Bear 3 – La recensione senza spoiler di Diego Castelli

Parliamo della terza stagione di una delle serie migliori degli ultimi anni, in arrivo su Disney+ il prossimo 14 agosto

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Dunque, la situazione è la seguente.
La terza stagione di The Bear è già uscita su Hulu negli Stati Uniti, mentre in Italia arriverà su Disney+ il prossimo 14 agosto.
Non conosco gli inghippi burocratici che hanno impedito un’uscita contemporanea (ricordando che Hulu è effettivamente di proprietà di Disney), né mi sento di lamentermene chissà quanto, perché ci sono cose più importanti nella vita.
Però la questione si pone.

Dieci anni fa, me ne sarei fregato e avrei scritto una recensione spoilerosa conscio del fatto che i nostri lettori e lettrici erano gli stessi che, non troppo tempo prima, solcavano i mari più impetuosi della rete per guardarsi in anteprima le puntate di Lost.
Da allora però è passato tanto tempo, la distribuzione dei contenuti ci è venuta incontro con tante belle possibilità, e quindi sono meno propenso a fregarmene completamente.

E però la terza stagione di The Bear esce il 14 agosto, mi fa strano scrivere una recensione in quel periodo lì, devo pure andare al mare.
Allora facciamo che intanto butto giù un’opinione senza spoiler, e poi magari ci risentiamo se serve.

Se state leggendo una recensione della terza stagione di una serie, è perché evidentemente sapete di cosa di parla. Vale però la pena di sottolineare come, nel periodo fra la messa in onda della seconda stagione (giugno 2023) e l’arrivo della terza (giugno 2024), The Bear sia sostanzialmente esplosa.

Ad aiutare, naturalmente, i dieci Emmy Awards vinti nella cerimonia tenutasi (con ritardo causato dallo sciopero degli sceneggiatori) nel gennaio del 2024, che hanno improvvisamente elevato una serie fino a quel momento abbastanza di nicchia, a improvviso nome da sfoggiare ogni volta che si vuole far vedere che di serie ne capisci.

Una fama tutt’altro che immeritata, anzi, ma che poi si è ulteriormente ampliata grazie alle campagne pubblicitarie di Jeremy Allen White per Calvin Klein, e a tutta quella mole di elementi e attenzioni accessorie che sempre finiscono con l’orbitare intorno ai nuovi “fenomeni”, brevi o duraturi che siano.

Naturalmente, a noi non serviva questa attenzione aggiuntiva per stare dietro a The Bear, una serie che fin dalla prima stagione si era posta come un piccolo gioiello di ritmo, buona recitazione e terribile ansia, ambientata in un mondo della cucina mai così ricco di passione, tensione, emozione. Una serie anche furba, capace di lavorare sulle grandi strutture narrative come sui piccoli dettagli, molto abile nello sfruttare la passione televisiva per la cucina deviandola sui suoi binari drammatici, arrivando pure a usare con grande consapevolezza alcuni orecchiabili tormentoni, come l’uso ossessivo della parola “chef” nei dialoghi fra i personaggi.

Soprattutto, una serie che con la seconda stagione era stata in grado di alzare ulteriormente il tiro, con almeno due episodi (quello sul pranzo di Natale e quello con la formazione di Richie nel ristorante di Chef Terry, interpretata da Olivia Colman) da mettere nell’elenco dei veri e propri capolavori seriali del Millennio.

E quindi si arrivava alla terza stagione con grande entusiasmo, alte aspettative, e forse perfino un po’ di timore sulla possibilità che The Bear, messa a confronto con una fama “vera”, da serie blockbuster, potesse non reggere la pressione.

E qui inizia la parte in cui cerco di schivare abilmente gli spoiler, per dire che The Bear la pressione l’ha retta, con un “però”.

Dopo che nella seconda stagione Carmy era riuscito ad aprire il suo ristorante, la terza lo vede impegnato a farlo crescere e prosperare, fra l’ambizione di arrivare a una stella Michelin e i soliti problemi di gestione e anche economici, con il suo finanziatore Cicero che sì, adora fare qualcosa di bello e importante, però insomma, i conti devono tornare.

Naturalmente, questo percorso si compone di molte tappe, qualche svolta imprevista, alcuni eventi che i personaggi attendono con trepidazione, e un finale che tiene conto di una quarta stagione già annunciata, cosa che le precedenti due stagioni non potevano permettersi di fare.

Giusto per rassicurare, The Bear è sempre The Bear. I suoi personaggi imperfetti, i loro sogni che diventano ossessioni, le domande sul presente e sul futuro, le tensioni feroci e insieme un profondo, radicato senso di famiglia e di comunità, che ruota intorno al cibo come missione e al raggiungimento di un obiettivo comune che diventa occasione di riscatto personale.

Nonostante il successo, Christopher Storer non ha dimenticato il nucleo della sua serie, il peso specifico di quel ristorante che diventa centro di gravità per personaggi che ci arrivano nei modi più disparati, entrando però in un’orbita da cui a quel punto è impossibile uscire.
C’è ancora spazio, in questa stagione, per singole storie personali e per flashback che ci mostrino le radici di ciò che vediamo da due anni a questa parte, e l’impressione è che l’autore questa volta affronti più di petto una questione specifica, cioè quella del valore e della ereditabilità di certi traumi.

Se infatti le prime due stagioni di The Bear ci mostravano un ambiente lavorativo caotico, complicato, durissimo, in cui uno sforzo estremo era considerato inevitabile per raggiungere certi risultati, questa volta vediamo aprirsi qualche spazio in più in cui porsi per lo meno la domanda: si possono fare le cose in modo diverso? È possibile coltivare l’ambizione in maniera non totalizzante e, per questo, meno distruttiva?
Non è l’unico tema della stagione, forse nemmeno il principale, ma è una specie di luce di realtà che riesce a farsi spazio nella drammatizzazione esaperata che è diventata marchio di fabbrica della serie.

Il “però” a cui accennavo prima è molto semplice. A mio giudizio, ma naturalmente su questo potremmo anche essere in disaccordo, nella terza stagione di The Bear non ci sono episodi che possano rivaleggiare con le citate puntate-capolavoro della seconda stagione.

Il che non significa, come detto, che la qualità generale non sia ancora altissima, né significa che non ci siano differenze fra gli episodi, con alcuni più regolari e “normali” (qualunque cosa voglia dire per una serie come The Bear), e altri che provano e riescono ad alzare l’asticella, che sia per una orchestrazione maniacale della messa in scena, presa da un ritmo forsennato e un montaggio da Mad Max, oppure per improvvisi sprazzi di dolcezza e intimità, che interrompono il flusso caotico della vita del ristorante, per riconnetterla alla condizione concreta, umana, dei personaggi che popolano lo show.

Insomma, tutto bene, a volte “molto bene”. Però non sarei onesto (con me stesso prima che con voi) se non ammettessi che alla fine della seconda stagione ero convinto di aver assistito ad almeno due momenti di televisione semplicemente pazzesca (le puntate erano la 2×06 e 2×07), mentre ho chiuso la terza senza avere in mente uno o più ricordi altrettanto dirompenti.

Inevitabilmente, sostenere che la terza stagione sia inferiore alla seconda, usando proprio queste parole, fa pensare a una catastrofe, perché queste sono le nostre reazioni nell’era dei social: mai una via di mezzo.

Ecco, allora lasciatemi sottolineare nuovamente che se tu fai una stagione da 9, poi una da 10, e poi una da 9, magari percepisci il calo, ma sempre di 9 si tratta. Più o meno la situazione con The Bear è questa qui.
E nemmeno mi sono soffermato sulla rappresentazione del cucinare in sé e per sé, o della scaltrezza con cui la serie continua a usare la musica, con una coerenza tematica ed emotiva che a volte sfiora il didascalico, ma che alla fine funziona sempre alla perfezione.

Diciamo che, in questo ragionamento, ci viene in aiuto proprio la trama di The Bear, con Carmy ossessionato all’idea di variare continuamente il menu del ristorante, per evitare monotonie e ridondanze. È un tema che si pone anche per le serie tv, anzi direi soprattutto per le serie tv, continuamente chiamate alla rassicurazione ma anche alla sorpresa, all’evoluzione ma anche alla riconoscibilità.
Esiste un punto di equilibrio prima del quale c’è la staticità e la ripetizione, e oltre il quale c’è l’ansia da prestazione e il caos. In quel singolo punto, invece, c’è l’eccellenza.
The Bear cerca continuamente quell’equilibrio, e lo fa raccontando la storia di un gruppo di persone alla costante ricerca di quello stesso equilibrio.
A una roba così puoi dire poco, anche quando lavora da 9 e non da 10.



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