Supacell su Netflix – Superpoteri in salsa londinese di Diego Castelli
Un supereroistico tutto black, ambientato nei sobborghi, che parte da premesse interessanti ma non spicca mai davvero il volo
Diciamoci la verità: i superpoteri non fanno più notizia. E lo dico da amante del genere, per quanto dovremmo pure intenderci sul concetto di genere, perché ormai è parecchio tempo che avere un gruppo di personaggi con poteri soprannaturali non idenfica più un genere specifico, che piuttosto dipende da dove arrivano quei poteri, in che contesto vengono usati, con che scopo e via dicendo.
In generale, comunque, se fino a due o tre decenni fa le serie con personaggi “super” erano molto poche, adesso è difficile trovare un periodo in cui non ce ne sia almeno una in onda, e anche i fan degli effetti speciali e dei personaggi capaci di alzare un camion con una mano (eccomi, sono uno di quei fan) si sono fatti un po’ più esigenti, perché i poteri, per l’appunto, non fanno notizia di per sé, e contano invece tutti gli elementi di contesto.
È in quest’ottica che dobbiamo valutare Supacell, nuova serie di Netflix creata dall’uomo col nome d’arte più didascalico del mondo, ovvero il rapper inglese noto come Rapman.
Ambientata nel Sud di Londra, Supacell racconta la storia di alcuni uomini e donne neri, con vite, obiettivi e stili di vita molto diversi fra loro, che a un certo punto sviluppano poteri soprannaturali di vario genere.
I nostri, come è facile immaginare, dovranno superare lo shock della scoperta di queste abilità, entusiasmarsi per le relative possibilità, ma anche preoccuparsi per i potenziali risvolti negativi, a partire da quello che potremmo considerare il protagonista, Michael (Tosin Cole), che acquista il potere di spostarsi nel tempo e nello spazio, e finisce brevemente nel futuro dove si vede arrivare in faccia notizie assai poco piacevoli.
Sarà proprio Michael a impegnarsi per unire le persone con i poteri, per affrontare un’oscura minaccia e il controllo da parte di una misteriosa organizzazione che ha fra i suoi capi anche tale Ray, interpretato da Eddie Marsan, a cui vogliamo molto bene fin dai tempi di Ray Donovan.
Se volessimo trovare un’etichetta, potremmo dire che Supacell è un supereroistico di provincia. Nessuno deve salvare il mondo, non ci sono eserciti alieni e messaggi globali, bensì storie più piccole, dal fattorino che vuole sposare la sua fidanzata al padre separato che ha problemi economici, passando per il capetto di una banda di teppisti.
Partendo da una certa predilezione di Rapman per i temi sociali e l’attivismo molto concreto e molto urbano, Supacell prende il tema razziale, gli dà una sostanza narrativa e soprannaturale abbastanza precisa (le persone con poteri sono tutte affette dall’anemia falciforme, patologia molto diffusa fra le persone nere), e lo incarna in storie raccolte, di quartiere, più che in grandi narrazioni di portata nazionale o più.
Per quanto alcuni aspetti esplicitamente “black” siano abbastanza marcati (non ultimo il fatto che i cattivoni sono ovviamente tutti bianchi) non è nemmeno una serie che calchi troppo la mano su quell’aspetto. Sembra piuttosto il caso di un autore che, molto semplicemente, ha scelto di prendere un elemento narrativo molto comune e di successo, per calarlo però in una realtà diversa dal solito, in un luogo e in un contesto sociale che ben conosce, e che solitamente non è protagonista del genere supereroistico, se non eventualmente come luogo da distruggere mentre due super tizi si menano.
L’operazione funziona solo in parte, e per motivi tutto sommato banali, addirittura tecnici. Supacell presenta una struttura abbastanza classica, con singoli personaggi di cui raccontare le storie personali, per poi farle intrecciare verso la costituzione di un gruppo. E il tutto è scritto con un certo mestiere, una discreta coerenza interna, un’idea di racconto abbastanza precisa.
Però non c’è niente di clamoroso. I mezzi produttivi sono quelli che sono, quindi non ci si può aspettare un chissà quale trionfo visivo. Allo stesso tempo, la regia resta molto scolastica, magari non difettosa, ma nemmeno memorabile. Lo stesso dicasi per i dialoghi e per la recitazione, quest’ultima abbastanza altalenante a seconda del singolo interprete.
Ci sono poi anche problemi più specifici, anche se abbastanza soggettivi: per esempio, il fatto che su sei episodi complessivi ci siano personaggi che ancora al terzo stanno cercando di capirci qualcosa dei loro poteri, crea una strana dissonanza con quello che normalmente siamo abituati ad aspettarci da storie di questo tipo, senza però sostituirla con “qualcos’altro” di più identitario.
E forse è questo il vero problema di Supacell, una serie che non ha problemi particolarmente vistosi, ma che non eccelle in nulla, rimanendo a un livello medio (talvolta medio-basso) che non rende giustizia a quello che la serialità inglese è sempre riuscita a mettere in campo per colmare il gap strettamente economico-produttivo con la serialità americana, ovvero una creatività molto vistosa, a volte assai particolare, dissacrante o disturbante (pensiamo alla forza di Utopia, che era girata con venti euro in croce e ti straziava il cervello).
A guardare Supacell, una serie lineare, del tutto comprensibile, che non presenta grandi differenze con altre storie di questo tipo, a parte il fatto che sono tutti neri e con meno soldi (non i personaggi, i produttori), tocca ricordare che se cercate un supereroismo inglese davvero peculiare e sui generis, il riferimento resta ancora Misfits, che è del 2009.
Supacell non si merita particolari insulti, ma temo ce ne dimenticheremo presto. Tipo adesso.
Perché seguire Supacell: per la storia tutto sommato ben costruita e per un’ambientazione diversa dal solito per questo tipo di trame.
Perché mollare Supacell: non c’è un solo elemento che non sia medio, o anche un pochino sotto media.