House of The Dragon 2×01 – Quello che ci piaceva di Game of Thrones di Diego Castelli
Il ritorno di House of The Dragon sembra fatto apposta per ricordarci perché ci siamo appassionati a questo mondo, tanti anni fa
ATTENZIONE! SPOILER SUL PRIMO EPISODIO DELLA SECONDA STAGIONE
Quando uscì la prima stagione di House of The Dragon, ad agosto 2022, eravamo scettici. Certo, Game of Thrones era stata una delle serie più importanti del decennio, se non la più importante. Allo stesso tempo, la sua ultima stagione (e forse qualcosa in più) non era piaciuta a un sacco di suoi fedeli spettatori, che dopo quella delusione (sulle cui cause sarebbe lungo tornare) temevano che uno spin-off nato soprattutto per esigenze commerciali potesse ereditare i problemi dell’ultima GoT, più che i pregi della prima.
A sorpresa, però, la prima stagione di House of The Dragon si rivelò densa, appassionante, ricca, sfaccettata ed emozionante come mai avremmo sperato. Al punto che, poco prima di iniziare la seconda uscita su HBO e in Italia su Sky e NOW, riuscivamo a essere ancora scettici: non è che è stato un caso e adesso cala?
Beh, a giudicare dal primo episodio possiamo stare abbastanza sereni.
Prima di guardare la puntata ho dovuto cercare un recap di una quindicina di minuti su youtube. Mi ero dimenticato troppi dettagli, in una serie che, come l’originale, basa una discreta parte della sua forza sulle sfumature, sulle parole dette e non dette, su una complessa stratificazione di relazioni fra i personaggi.
E più in generale, è una storia piena di gente con nomi somiglianti fra loro, al punto che non mi sono vergognato di tenermi vicino un bel bigino per non confondermi.
E uno potrebbe dire, in tono volutamente provocatorio: ma può essere bella una serie in cui devi tenerti vicino gli appunti perché altrimenti non ci capisci più niente?
A parte che la risposta è sì, nella misura in cui ci sono tante serie che hanno fatto la storia della tv e che chiedevano agli spettatori un grado superiore di attenzione, ma per rispondere davvero a quella domanda bisogna andare al cuore di ciò che rendeva grandi le prime stagioni di Game of Thrones, e che sta fondando anche il successo di House of The Dragon.
Se pensiamo distrattamente a ciò che ci piaceva di Game of Thrones, inevitabilmente ci verranno in mente certe scene iconiche, dal Red Wedding alla Battaglia dei Bastardi, dalla morte di Joffrey alle prime comparse dei draghi, capaci di esplodere sul piccolo schermo una qualità visiva che solitamente vedevamo solo al cinema.
In realtà, però, la forza di quelle scene, la loro capacità di prenderci cuore e stomaco e scambiarli di posto, veniva in gran parte dal fatto che di quei personaggi ci importava, dalla precisa consapevolezza di quanto quei momenti fossero fondamentali per la trama complessiva, anche dalla sorpresa che spesso quelle scene suscitavano.
Per dirla in altro modo, quello che contava davvero era la costruzione precedente, la capacità di tessere una trama e delle relazioni con metodica precisione, mattoncino per mattoncino, dando vita a un mondo credibile e concreto, in cui i personaggi hanno delle motivazioni, provano delle emozioni, e possono anche porsi come specchio degli spettatori, o di certe parti di essi, magari quelle più nascoste eppure potenti.
Era questa costruzione a garantire che le famose scene iconiche potessero piantarsi nel nostro cervello senza lasciarlo mai più: la morte di Joffrey è clamorosa solo in virtù di quanto lo odiavamo prima; la morte di Oberyn funziona perché ribalta la simpatia e la fiducia che avevamo per lui; il Red Wedding ti taglia le gambe perché non pensavamo che tutti quei personaggi così importanti potessero sparire così (una riflessione che, peraltro vale pari pari anche per i romanzi di Martin).
House of the Dragon funziona allo stesso modo. Pian piano, di episodio in episodio, costruisce e costruisce e costruisce, ricamando una catena di relazioni e tensioni che sobbolle come in una pentola a pressione, per poi esplodere in momenti così esatti, che basta uno sguardo, una lacrima, una parola, perché chi guarda possa sentirsi condensare la pelle d’oca sulle braccia.
Intendiamoci: qualunque storia, soprattutto quelle seriali, funziona o dovrebbe funzionare così. Ma più ci si prende tempo per costruire, e più bisogna essere capaci di schivare la noia che potenzialmente potrebbe nascere da lunghi dialoghi e scene molto “sedute”.
House of The Dragon riesce a limitare questo rischio con la qualità dei dettagli: la sceneggiatura sempre calibratissima, in cui ogni frase colpisce nel segno, e una messa in scena in cui ogni interprete trasuda carisma, ogni scenografia, costume o effetto speciale ci afferra e ci lancia in un altro mondo, lontano dal nostro divano e in groppa a un drago in volo.
Il primo episodio della seconda stagione, dal punto di vista che stiamo illustrando, è magistrale.
Sarebbe lunga fare un vero e proprio “riassunto delle puntate precedenti”, ma sapevamo che la prima stagione ci aveva lasciato con una grande tensione e due gruppi principali di personaggi: da una parte King’s Landing, con Alicent (vedova del re Vyseris appena morto) e suo padre Otto impegnati a gestire il potere statale attraverso i figli, in particolare il giovane e non esattamente simpatico Aegon, appena seduto sul Trono di Spade.
Sull’altro fronte, Rhaenyra, figlia del defunto re, che rivendica il trono per sé e per i suoi figli (probabilmente illegittimi) e viene spalleggiata da Daemon, suo zio e amante (perché fra Targaryen si fa così).
Draghi da una parte, draghi dall’altra, e un finale di prima stagione in cui il giovane Lucerys, figlio di Rhaenyra, viene letteralmente sbranato dal drago di Aemond, figlio di Alicent.
E comprensibilmente, all’inizio della seconda stagione Rhaenyra è un filino adirata.
Tutto il primo episodio, come detto, è una lenta ma precisa costruzione di tensioni, che arricchisce e amplia quelle che già conoscevamo.
Se infatti era scontato che Rhaenyra avrebbe preteso vendetta, questo desiderio si poteva raccontare in molti modi diversi, con parole, ritmi e sguardi differenti.
Così, per esempio, Rhaenyra non torna subito fra i suoi, perché impegnata a cercare conferme della morte del figlio. Quando le trova e fa effettivamente rientro a casa, della fine stratega e regina non è rimasto granché, perché l’unica cosa rimasta è una madre distrutta dal dolore e pronta a tutto per avere giustizia.
Allo stesso tempo, Alicent continua a lavorare per il potere, ma sa che il figlio guercio ha fatto una cazzata, e sa che l’altro figlio, quello sul trono, è tutt’altro che santo o anche solo scaltro (come vediamo nella scena in cui dovrebbe amministrare piccole questioni dei suoi sudditi, e ha bisogno della continua supervisione di nonno Otto).
Un risultato di questa dinamica, uno dei molti, è una scena in cui vediamo contemporaneamente il funerale di Lucerys ma anche il pensiero che gli viene rivolto da parte di Alicent, come se la donna sapesse di essere sul filo del rasoio e cercasse, prima di tutto dentro di sé, di stare comunque dalla parte giusta, di costruire un’immagine di sé non troppo brutta da guardare allo specchio.
Il che però non cambia, ma anzi amplifica, la forza del finale.
A Rhaenyra, che comunque non parla con Alicent, non frega niente dei pensieri che sta eventualmente facendo la controparte: lei vuole vendetta, e così ordina a Daemon di portargli la testa dell’assassino del figlio.
Daemon allora assolda un soldato fedele e un cacciatore di topi, già famosi nei romanzi di Martin con i nomignoli di Blood e Cheese, per uccidere Aemond. I due si intrufolonano nella corte e non trovano l’effettivo bersaglio, ma si imbattono invece nella moglie nel nuovo re Aegon, che veglia i due figli gemelli del sovrano.
Qui Blood e Cheese, a cui sta comunque bene uno dei due (perché in fondo l’episodio si chiama “A son for a son”, un figlio per un figlio), si fanno indicare il gemello maschio erede al trono e, sotto gli occhi pietrificati di sua madre, lo uccidono nella culla tagliandogli la testa, senza mostrarci niente ma facendoci udire l’agghiacciante suono della lama che lacera carne e ossa.
Questa scena, senza magari arrivare alle altezze delle migliori sequenze di Game of Thrones, è comunque un sigillo poderoso per l’episodio, nonché l’esemplificazione del discorso che facevamo prima: ovviamente, il freddo omicidio di un bambino colpirebbe comunque, ma ad amplificare la nostra emozione c’è la precisa consapevolezza di tutto quello che c’è dietro, e del fatto che questo atto di vendetta non farà altro che aumentare a dismisura l’odio, il disprezzo e la violenza fra i due rami della medesima famiglia.
Per dovere di cronaca, è anche giusto dirci che non tutti i lettori dei romanzi hanno apprezzato la scena, che su carta era diversa anche perché leggermente diversi erano i personaggi coinvolti, e suonava anche più disturbante di quanto abbiamo visto sullo schermo.
Personalmente, non mi scandalizzano né le modifiche (dovute in parte alle conseguenze di altri cambiamenti occorsi nella prima stagione, e in parte all’impossibilità di far “vedere” cose che su carta erano più facili da raccontare, come sa bene, per esempio, chi ha letto American Psycho per poi vedere il film), né le proteste sincere di chi voleva “un po’ di più”: mi sembrano legittime le une come le altre.
C’è però un dettaglio in cui la serie sbaglia: se nel libro (così mi dicono, smentitemi nel caso) Daemon non era così specifico nel lanciare la missione di vendetta, garantendo così a Blood e Cheese il margine di manovra per scegliere una vittima diversa dall’effettivo assassino di Lucerys, in House of The Dragon Daemon è fin troppo preciso nel parlare di Aemond, rendendo così più forzata la scelta, da parte dei due sicari, di fregarsene degli ordini del loro committente, scegliendo una vittima alternativa.
Stiamo comunque parlando di dettagli.
Quello che davvero ci interessa è che, a distanza di quasi due anni dalla prima stagione, House of The Dragon torna con tutti i pregi che conoscevamo, e lasciandoci la precisa impressione che le difficoltà incontrate da Game of Thrones nell’ultima stagione siano state comprese e assorbite.
Al momento, House of The Dragon è una serie che sa in quale solco si inserisce, che non ha paura di prendersi il tempo necessario per costruire la sua forza, e che gioca con le nostre coronarie esattamente come faceva la serie madre, con la stessa precisione, la stessa qualità, la stessa adorabile spietatezza.
Appena prima della messa in onda di questo primo episodio, House of The Dragon è stata già rinnovata per una terza stagione. Al momento, un motivo in più per essere felici.