Masters of the Air su Apple Tv+ – Qui una volta era tutta Band of Brothers di Diego Castelli
L’ultima fatica militare di Steven Spielberg e Tom Hanks non riesce a reggere il confronto con la nobile antenata
ATTENZIONE: QUALCHE SPOILER MA NON ECCESSIVO (A MENO CHE NON SAPPIATE NULLA DI STORIA)
Vale nella vita come nelle serie tv: c’è un tempo per tutte le cose.
Il valore della tua opera, inteso soprattutto come la sua capacità di lasciare un segno, dipende certamente da certe sue qualità intrinseche, ma anche del tempo, dal luogo e dal modo in cui raggiunge il suo pubblico.
E se quel tempo e quel luogo sono in qualche misura sbagliati, o magari obsoleti, per lasciare un segno serve che le qualità intrinseche sia oltremodo pompate.
Tutto questa supercazzola per dire una cosa molto semplice: che Masters of The Air, la nuova serie di Apple Tv+ prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, erede ufficiale di Band of Brothers e The Pacific, non riesce a reggere il confronto (per lo meno con la prima), anche perché non è più il suo momento.
Se Band of Brothers (2001) si concentrava su una specifica compagnia di fanteria, impegnata nelle operazioni in Germania nella Seconda Guerra Mondiale, e The Pacific (2010) spostava l’attenzione sulle operazioni dei marines nel Pacifico, Masters of The Air torna in Europa per raccontare le gesta del 100th Bomb Group, ovvero un gruppo di piloti d’aereo che, partendo dall’Inghilterra, compiva rischiose operazione di bombardamento nei territori occupati dalla Germania nazista.
La serie, creata da John Shiban e John Orloff Per Apple Tv+ (le altre due serie erano state trasmesse da HBO) e diretta fra gli altri da Cary Joji Fukunaga, presenta più o meno la stessa struttura degli altri due titoli: ambiziose scene di battaglia, precisa ricostruzione storica, e abbondanza di singole storie personali, di amicizia, di patriottismo.
Il cast, abbastanza ricco di volti noti o parzialmente tali, ha la sua punta di diamante in Austin Butler, il lanciatissimo attore poco più che trentenne già visto nell’Elvis di Baz Luhrmann e recentemente come cattivissimo Feyd-Rautha Harkonnen nella seconda parte di Dune.
Visto che parlavamo di “momenti giusti” e del fatto che forse Masters of The Air non coglie il suo (dopo ne parliamo meglio), bisogna però dire che, dal punto di vista visivo, si ha effettivamente l’impressione che questa serie non potesse essere prodotta prima con la stessa efficacia.
Concentrandosi sulle battaglie aeree, che occupano soprattutto la prima metà della stagione, Master of The Air fa sfoggio di grandi effetti speciali, e c’è poco da dire e molto da gioire sul modo in cui la regia, il montaggio e il sonoro cercano e trovano facilmente un senso di grandiosità e di epica militare che avrebbe meritato il grande schermo.
Se a questo aggiungiamo una grande attenzione per i dettagli, dai costumi alle scenografie, anche nelle scene che con il combattimento aereo c’entrano poco e niente, ecco che Masters of The Air raggiunge di slancio l’obiettivo di porsi come un grande spettacolo prima di tutto sensoriale, cinetico, epidermico.
Dove invece la serie fa più fatica, e anzi bisognerebbe dire “molta” più fatica, è nella scrittura.
I primi episodi si concentrano sulle continue missioni in territorio nemico, con i nostri che partono e tornano più o meno decimati, e si cerca di costruire il dramma sulla base di questo costante rischio di non tornare a casa.
Solo che la mancanza quasi totale di un nemico visibile, che risulta sempre spersonalizzato all’interno dei suoi aerei, rende il tutto abbastanza ripetitivo, mettendoci quasi subito nella condizione di attendere qualcos’altro.
Questo qualcos’altro è la caduta di alcuni dei protagonisti oltre le linee nemiche, un evento che sicuramente dà un po’ di varietà e di respiro alla narrazione, anche se la sposta da un’altra parte rispetto al concetto dei “maestri dell’aria”.
Anche qui, però, qualcosa continua a non tornare. I personaggi sono tanti, ma c’è una costante sensazione di già visto. La Seconda Guerra Mondiale è uno scenario ampiamente sviscerato dal cinema e dalle serie tv, e Masters of the Air non sembra in grado di offrire spunti nuovi e prospettive originali.
Verso la fine, poi arrivano vere e proprie cadute. Il penultimo episodio è interamente dedicato ai Tuskegee, un gruppo di piloti afroamericani che seppero dare un contribuito importante alla vittoria alleata, ma di cui si è sempre parlato poco.
Proprio per questo, però, non si capisce perché non abbiano potuto trovare maggiore spazio nella narrazione complessiva, integrandosi meglio col resto del cast.
L’impressione, poco piacevole, è quindi quella di un episodio da “quota nera”, aggiunto così tanto per fare, quando avrebbe avuto perfettamente senso (e sarebbe stato ben più funzionale anche dal punto di vista dell’inclusività) integrare in maniera più costante anche questi piloti nel resto della narrazione.
L’ultimo episodio, poi, cerca di raccontare le ultime fasi della guerra e il momento della liberazione, trovando qualche emozione proprio nelle ultime fughe dei nazisti e nelle notizie radiofoniche sulla fine del conflitto, senza però riuscire a orchestrare con vera efficacia una puntata che alla fine risulta inutilmente lunga e diluita.
Di fatto, il momento più emozionante resta quello in cui i volti degli attori vengono sostituiti con le loro controparti reali, corredate di breve descrizione su cosa ne è stato di loro dopo la guerra.
Però insomma, sono di fatto i titoli di coda.
Questi problemi, forse, sarebbero potuti passare in secondo piano (anche se Band of Brothers era scritta meglio, punto), se Masters of The Air fosse arrivata in un contesto che favorisse il suo racconto, che ne celebrasse la giustezza nel qui e ora del nostro fruire mediale.
In realtà, così non è. Vero che anche questi sono anni di guerra ma, proprio per questo, sentir parlare di una guerra ormai molto lontana del tempo, quando l’attualità fornisce giornalmente notizie e immagini e riflessioni molto più stringenti e preoccupanti, confina la serie in una casella che sembra semplicemente passata di moda.
Se Band of Brothers arrivava pochi anni dopo Salvate il Soldato Ryan, in una rete come HBO che in quegli anni stava cambiando per sempre la serialità televisiva, e praticamente negli stessi giorni dell’11 settembre, quando il patriottismo americano viveva giorni concitati, confusi, ma anche di aggregazione nazionale, Masters of The Air arriva in un contesto assai diverso: metà delle persone è stanca di sentire parlare di guerra, l’altra metà è interessata alle guerre effettivamente esistenti in questo momento, e una serie di impostazione così classica, su una piattaforma che non è la prima fra le più seguite, rischia semplicemente di essere meno rilevante, al netto dei suoi valori produttivi.
A conti fatti, più che un’occasione sprecata – anche se in parte lo è, perché una serie con una gestazione così lunga deve presentarsi con una sceneggiatura migliore – Masters of The Air sembra semplicemente arrivata fuori tempo massimo.
Non è pessima, ha le sue qualità evidenti, ma sconta il confronto con altre miniserie scritte meglio e, soprattutto, con la fama di una capostipite che, banalmente, ha lasciato un segno maggiore nella serialità americana.
Niente insulti, ma nemmeno così tanti applausi.
Perché seguire Masters of the Air: per il suo livello produttivo e per chiudere il cerchio iniziato da Band of Brothers e proseguito da The Pacific.
Perché mollare Masters of the Air: per una sceneggiatura non all’altezza di una produzione di questo livello, e perché sembra ormai troppo tardi per questo brand ormai invecchiato.