6 Febbraio 2024

Expats su Prime Video – Ma va che bel drama pesantone di Diego Castelli

Poi finisce che prendiamo in giro Nicole Kidman perché fa un sacco di cose, però riconosciamole che è brava in tutte

Pilot

Che paura avevo prima di vedere il pilot di Expats su Prime Video.
Per carità, un bel cast capitanato da Nicole Kidman, un’affascinante ambientazione a Hong Kong, la firma di Lulu Wang, regista di The Farewell e interessante “voce nuova” del panorama cine-televisivo americano.

Però i trailer davano anche quell’impressione da film d’autore, da “dramma impegnato” che, spalmato su sei puntate, rischiavano di diventare meno gestibile di, che ne so, un Lost in Translation di Sophia Coppola (giusto per citare un altro prodotto d’autore a cavallo fra Stati Uniti e Asia).
Insomma, era elevato il timore di fare la fine di Fantozzi davanti a La corazzata Kotiomkin.

Alla fine, però, tutto bene: sì, Expats è effettivamente una miniserie d’autore e un drama piuttosto impegnativo, ma ha anche parecchio da dire e lo fa con una certa potenza.

Il nucleo della storia (basata sul romanzo The Expatriates by Janice Y. K. Lee) è la sparizione di un bambino. Il figlio più piccolo di Margareth (Nicole Kidman), americana sposata con Clarke, uomo d’affari di origine asiatica (Brian Tee), è sparito senza lasciare traccia durante una giornata all’affollato mercato di Hong Kong, e la coppia cerca di portare avanti la propria vita in attesa di notizie.

Accanto a Margaret ci sono altre due importanti figure femminili, a comporre un trittico di protagoniste: Hilary (Sarayu Blue), amica di Margaret con cui ha un rapporto non sempre pacifico e che ha i suoi problemi a gestire un matrimonio senza figli e in crisi nera; e Mercy, giovane studentessa di origine coreana la cui vicenda si interseca a quella delle altre due in modi che non c’è bisogno di spoilerare.

Tutto questo sullo sfondo della Hong Kong del 2014, quella della Rivoluzione degli Ombrelli, la protesta con cui migliaia di cittadini chiesero maggiore democrazia nelle elezioni, in una città tornata alla Cina nel 1997 e da sempre considerata luogo di frontiera, di mescolanza di culture, di intersezioni imprevedibili fra ideali, destini, storie personali.

Visto che si temeva l’effetto “drama pesantone”, bisogna dire che Expats effettivamente lo è. C’è un bambino scomparso, ci sono matrimoni in crisi, carriere in bilico, paura per il futuro.
C’è soprattutto un ambiente posticcio, in cui la necessità di mantenere un’immagine pulita, fresca, moderna e accomodante cozza con gli stravolgimenti e i dolori che bruciano dietro le quinte.

Per fortuna, però, è proprio in questa tensione fra personaggi e fra i personaggi e lo sfondo, che Expats trova le sue scene più potenti e i suoi risvolti più imprevedibili.
Al momento di scrivere questa recensione sono usciti i primi tre episodi (su sei complessivi), e ognuno ha la sua ragion d’essere: il primo ci racconta il presente e i problemi esistenti, il secondo ci porta indietro a vedere il momento in cui la scomparsa del bambino ha fatto esplodere tensioni sotterranee, il terzo affonda le mani nei problemi mostrati nel primo, per mostrarci quanto le cose, già piuttosto precarie, possano ancora peggiorare.

E sono episodi capaci di costruire la tensione sia con i grandi eventi (come quelli legati alla sparizione del bambino e alle indagini), sia con le piccole sconfitte quotidiane, con messaggi mandati alla persona sbagliata che causano grande dolore, con feste organizzate controvoglia da persone che vorrebbero solo raggomitolarsi in un angolo, con amare prese di coscienza di bei tempi ormai passati e che non torneranno più.

C’è dunque un fine lavoro di scrittura, prima ancora che di messa in scena, capace di mostrare una certa resilienza dei personaggi, effettivamente impegnati nello sforzo di “tirare avanti”, unita però a momenti di crollo che arrivano sempre al momento giusto e nei modi giusti, gestiti da una sceneggiatura sadica e bastarda che sa sempre dove colpire.

Le cose però non funzionerebbero nel modo giusto se il cast non facesse un grande lavoro.
Nicole Kidman ormai la prendiamo in giro perché è diventata una prezzemolina delle miniserie e perché ha la faccia plasticosa, ma non ha smesso di essere una grande attrice, qui chiamata a interpretare il personaggio colpito dal dolore più grande, a cui vengono chiesti molte sfumature e toni diversi.
Sarayu Blue deve interpretare un personaggio meno rumoroso, più contenuto, ma non meno sofferente, e le sue espressioni di rabbia e dolore trattenuti diventano presto uno degli elementi migliori della miniserie.
Ji-young Yoo, dal canto suo, interpreta bene la ragazza ancora giovane e inesperta, che crede di sapere già tutto della vita e del suo futuro, e invece inanella una cazzata dietro l’altra.

Il risultato, dunque, è un prodotto che si presenta effettivamente con una grande eleganza visiva e con il rischio di parere arrogante nel suo voler essere una serie “alta”. Allo stesso tempo, è tutt’altro che un prodotto freddo, perché è capace di scavare nell’intimo dei suoi personaggi e mostrarci in pieno questa loro precarietà: geografica, delle relazioni, delle aspirazioni.

Sapere di essere in presenza di una miniserie non mi fa temere per la seconda metà, perché trovo difficile che un discorso così ben impostato perda il proprio filo nel giro di poco tempo. Mi resta solo il timore (non avendo letto il romanzo) che si finisca col dare alla storia un finale troppo netto e compiuto, quando credo che la cosa migliore, per Expats, sarebbe di raccontare un pezzo del percorso di questi personaggi, lasciandoci un margine di dubbio sul loro futuro.
Ma è una speculazione così, giusto per pour parler, perché al momento Expats è da consigliare e basta.

Perché seguire Expats: è un drama ben scritto, ben interpretato, girato con gusto, che con pochi sussurri ti prende lo stomaco e non lo molla più.
Perché mollare Expats: se siete in vena di qualcosa di leggero, ecco, no.



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