True Detective Night Country – Va che forse funziona di Diego Castelli
La quarta stagione della travagliata serie parte col piede giusto
Più o meno tutti e tutte, a parte chi si è sposato con l’amore del liceo (ma in quel caso di sono altri problemi), sanno benissimo che le ferite del cuore hanno bisogno di tempo per rimarginarsi. Puoi conoscere perfettamente tutte le dinamiche, puoi aver visto tutti i teen drama del mondo, ma quando ti ammaccano il muscolo cardiaco devi prenderti il tempo di guarire, e ci vuole sempre un po’.
La seconda e la terza stagione di True Detective ci avevano fatto male al cuore. Troppo complicate (specie la seconda), troppo pesanti, ma soprattutto incapaci di ritrovare quello strano equilibrio fra poliziesco, spiritualismo e filosofia, che avevano reso leggendaria la prima stagione con Matthew MacConaughey e Woody Harrelson.
O forse mi ricordo soprattutto le nudità di Alexandra D’Addario, vai a sapere.
Fatto sta che avevamo bisogno di tempo per guarire, e forse cinque anni sono stati sufficienti. Alle porte della quarta stagione – la prima non scritta da Nic Pizzolatto, sostituito da Issa López – eravamo consci di non poter chiedere il livello della prima, che non tornerà più anche solo perché non possiamo più essere sorpresi, ma ci limitavamo a chiedere qualcosa di meglio rispetto a seconda e terza. Un obiettivo pacato, educato, raggiungibile.
E forse ci siamo.
Qui devo mettere un’avvertenza un pochino imbarazzante. Anche a noi, come a diversi siti e giornalisti più “di mestiere”, Sky e NOW avevano mandato tutte le puntate della quarta stagione (a proposito, grazie mille).
Solo che noi abbiamo deciso di non guardarle tutte in una volta. Un po’ perché la procedura per autenticarsi era complessa e noi siamo anziani, e un po’ perché, visto che tanto non ci corre dietro nessuno, volevamo viverci la serie come si deve, una volta a settimana, magari commentando ogni puntata nel podcast del venerdì.
Quindi insomma, quello che leggete qui è il mio commento al primo episodio, e solo a quello. Sul sito ci risentiremo poi a fine stagione per un parere finale più consapevole.
Comunque, dicevamo. Quarta stagione, nuova storia, nuova autrice, nuova sigla con Billie Eilish, ma un tentativo evidente di tornare al cuore di True Detective.
E qual è il cuore di True Detective? Per ironia, sta nel fatto di non essere una classica detection, a dispetto di quel “true” del titolo.
La prima stagione seguiva un caso misterioso e appassionante, certo, ma non è per lui che è diventata una serie di culto. A fare la differenza furono l’atmosfera quasi horror, sospesa fra realismo e magia. Fu il carisma dei personaggi anche a prescindere dalle indagini. Fu la capacità di mettere in bocca a quegli stessi personaggi dialoghi e riflessioni che andavano ben al di là della semplice ricerca di un assassino, anche a costo si costruire un personaggio, il Rust Cole di Matthew MacConaughey, talmente carico da essere quasi surreale.
La quarta stagione, denominata Night Country, già solo nell’ambientazione sembra voler sottolineare la sua volontà di andare oltre la semplice investigazione.
Siamo in Alaska, oltre il circolo polare artico, e l’inizio dell’episodio coincide con l’ultimo tramonto prima di sei mesi ininterrotti di oscurità.
Un gruppo di scienziati, che abitano una stagione di ricerca, sparisce nel nulla, e sul caso finiscono a indagare, arrivando da punti diversi, due donne, Liz Danvers (Jodie Foster) ed Evangeline Navarro (Kali Reis). Il caso è di per sé oscuro e misterioso, ma le cose si complicano quando alle due sembra di poter collegare le sparizioni con un altro caso più vecchio, su cui Navarro ha finito col costruire una specie di ossessione.
Il resto sono strade buie, lingue mozzate, visioni di gente morta, incubi particolarmente vividi.
In attesa di scoprire dove si piazzerà il limite fra realtà e sogno, carne e spirito.
Senza girarci ulteriormente intorno, è un buon primo episodio. E lo è nella misura in cui, per l’appunto, Issa Lòpez sa che True Detective non può essere solo racconto di un’investigazione, ma anche costruzione di un mondo.
L’investigazione c’è, in questa puntata. C’è all’inizio, c’è in mezzo, c’è alla fine, ma accanto a essa, sopra e sotto e intorno, c’è la storia di due personaggi di cui bisogna costruire un presente e un passato, un sistema di relazioni, una posizione all’interno di una comunità che non vive una vita simile al resto delle persone del pianeta.
Con mia infinita gratitudine, la cosa non viene fatta in modo troppo didascalico. I personaggi vengono presentati nel loro ambiente, e le informazioni su di loro non ci vengono spiattellate in faccia attraverso dialoghi completamente irrealistici e pensati solo per educare chi guarda. Al contrario, allo spettatore è richiesto lo sforzo di desumere dal contesto certi dettagli fondamentali, un’operazione non troppo difficile ma comunque abbastanza densa da darci l’impressione di stare guardando persone reali.
Per certi versi, le due donne sono abbastanza simili: ciniche, spicce, pratiche, capaci di comandare. Anche per questo sembra che fra le due non corra buonissimo sangue, per questioni strettamente professionali, ma un altro pregio di questo episodio è quello di creare una tensione ma anche una sorta di ponte e riconoscimento fra le due.
Liz ed Evangeline hanno entrambe le loro vite e i loro problemi, che siano familiari, amorosi e via dicendo. Vediamo queste vite al di là del caso criminale, e soprattutto di Liz scopriamo il suo incastrarsi con la comunità in cui è arrivata da non moltissimo, ma da abbastanza tempo per conoscere persone, abitudini, piccole manie. Il suo rapporto con i due vice, padre e figlio, è perfetto per raccontarci la sua bravura, la sua leadership, e anche un po’ il suo essere fastidiosamente esigente quando ci si mette.
E sono proprio queste spigolosità, non troppo diverse da quelle di Evangeline, a far cozzare spesso le due, che però riconoscono anche la reciproca bravura, onestà, abnegazione. Qualità che non paiono così diffuse in questa cittadina sperduta, e che dunque vanno conservate e coltivate.
Quando arriviamo alla fine dell’episodio, sappiamo effettivamente qualcosa in più del caso, ma nel frattempo è stato fatto molto world building, molta costruzione dei personaggi, ed è stata anche spalmata una certa patina di soprannaturale e misticismo, non esplicitamente fantasy, ma abbastanza horror da lasciarci la certezza, di nuovo, che non stiamo guardando una puntata di una qualunque serie investigativa.
Complessivamente, il miglior pregio di questo episodio mi sembra quello di aver messo tanta carne al fuoco, accettando la sfida di deviare fin dall’inizio dal caso criminale, senza però sacrificare la comprensibilità.
Quando scorrono i titoli di coda “ci siamo”, non ci siamo persi nella notte artica, siamo del tutto presenti a noi stessi. E allo stesso tempo siamo dentro alla storia, abbiamo già colto la piena identità delle protagoniste, abbiamo già compreso come i risvolti di un caso che non sarà affatto “normale” potranno sconvolgere la vita di due donne che hanno i loro problemi, ma finora sono state in grado di gestirli.
Ripeto, finora.
Inevitabilmente, anche dopo cinque anni, si porrà il problema del confronto con la prima stagione. La cosa migliore che possiamo fare è starne il più possibile alla larga, per lo meno nei termini strettamente giudicanti del “chi è meglio di chi”.
Non avremo più una True Detective capace di incidere in maniera decisiva sul corso della serialità tutta, perché quelli sono privilegi quasi esclusivi delle prime stagioni.
Ma se l’obiettivo, più ragionevole, era quello di riscoprire l’anima di quei primi episodi, utilizzando facce e sguardo più freschi per liberarla dalle inaspettate pesantezza delle stagioni 2 e 3, allora forse potremmo essere di fronte a un prodotto effettivamente valido, che ci farà divertire e ci inquieterà al punto giusto.
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Gesù, sembro uno di quelli che dicono di cliccare sulla campanella…