3 Gennaio 2024

Slow Horses 3 – Siamo tutti ronzini di Diego Castelli

Un’altra grande stagione, con il trailer della prossima, e con il rinnovo per la quinta

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ATTENZIONE: SPOILER SU TUTTA LA TERZA STAGIONE

Per spiegare perché è inevitabile amare Slow Horses bisogna forse partire dalla fine. Ma proprio la fine-fine, dopo l’ultima scena dell’ultimo episodio, quando parte il trailer della prossima stagione.
Perché Slow Horses è così: finisce la terza stagione e subito ti fanno vedere il trailer della quarta, e una settimana dopo ti fanno sapere che la serie è già stata rinnovata per la quinta. In questo modo, in un mondo caotico e pieno di problemi, almeno sai che potrai contare sul fatto che Gary Oldman scorreggerà ancora per un paio d’anni, e tu puoi tirare un sospiro di sollievo.
Oddio, magari non proprio un sospiro, nel caso specifico, ma ci siamo capiti.

Intanto, la terza stagione non ha fatto altro che confermare tutti i motivi per cui Slow Horses ci piace fin dall’inizio, facendoci forse comprendere in maniera definitiva come non sia solo una “bella serie”, che comunque avercene, ma sia soprattutto una serie furbissima, perché non è facile mettere insieme una storia di spionaggio, in cui ci sono degli eroi che sono a tutti gli effetti spie, ma nei quali puoi riuscire a identificarti in modo credibilissimo.

A conti fatti, della trama delle varie stagioni di Slow Horses ci interessa relativamente poco. Nella terza la cosa è quasi dichiarata, ci si gioca come se fosse un pezzo di dark comedy. Quando Standish viene rapita, a inizio stagione, si pensa a chissà quale terrorismo internazionale, per poi scoprire dopo poco che si tratta di un gioco tutto politico interno all’agenzia, in cui i nostri ronzini vengono messi alla prova così, per gioco, per farsi beffe di Lamb che sta sulle balle quasi a tutti.

Poi la faccenda si complica e il giochino sfugge di mano, al punto da provocare morti, feriti, e qualche scena realmente drammatica, ma resta sempre e comunque uno sberleffo di fondo: tutta la trama gira intorno al recupero di certi documenti per i quali la gente viene pure ammazzata, ma di cui alla fine non conosciamo l’esatto contenuto, sappiamo solo che è roba imbarazzante per l’MI5, di cui il padre di River, un anziano con un principio di demenza, si sbarazza gettandoli nel fuoco.

Qualunque cosa succeda, insomma, pure quando uomini e donne dell’agenzia si ammazzano fra loro, l’unica cosa che conta è il mantenimento della facciata, il prestigio dell’organizzazione, e quindi il nostro intrattenimento va cercato altrove, non certo nella concreta possibilità di chissà quale ribaltamento.

Fortunatamente, Slow Horses è concepita proprio per questo, per cercare l’intrattenimento altrove.
Il “dove” è presto detto: i ronzini del titolo sono il ribaltamento (stavolta sì) dell’ideale jamesbondiano della spia inglese.
Non è dato avere una spia che sia insieme competenente, bella, elegante e di successo. Se sei bello sei almeno parzialmente incapace (River), se sei intelligente sei mollacchiona e ingenua (Standish), se sei molto competente in un ambito, farai solo danni negli altri (il momento forse migliore della stagione, quando Rod, tirato fuori dal suo mondo di hackeraggi, decide che è una buona idea schiantarsi su una casa con un camion).

E se per caso la tua mente è quella di una vera spia, capace di combattere il gioco degli intrighi al più alto livello, allora devi anche essere una specie di senzatetto sporco, brutto e ubriacone, con una spiccata misantropia.

È qui che Slow Horses mette in campo tutta la sua furbizia: nella capacità di non rinunciare alle sfumature.
Se è vero che non stiamo guardando un film di James Bond, come detto, è altrettanto vero che non siamo di fronte a una comedy pura dove dei completi imbecilli riescono, chissà come, ad avere successo nelle loro missioni.
In Slow Horses è facile identificarsi con i protagonisti perché sono pienamente umani. Il che significa che hanno in effetti delle qualità, a volte molto ben visibili e invidiabili, a cui però sono associate fragilità, mancanze e difetti altrettanto vistosi.

L’esempio più vistoso è naturalmente River: all’inizio di questa stagione il nostro si dimostra capace di un’operazione di infiltrazione per la quale servono ingegno, rapidità, prontezza, che associa però alla completa incapacità di capire che si trova all’interno di una truffa.
L’imbarazzo che prova, il disagio a cui viene sottoposto sia da Webb sia da Duffy (che poi la paregheranno cara), è facilissimo da riconoscere e comprendere, perché a tutti noi è capitato almeno una volta di sentirci fighissimi, solo per scoprire che in quel momento stavamo facendo la figura dei fessi.

Quelle stesse sfumature, naturalmente, riguardano la principale attrazione della serie, ovvero il Jackson Lamb di Gary Oldman. Si può dire senza paura di sbagliare che l’attesa per le battute sarcastiche di Lamb fa più della metà dell’interesse per questa serie. Il che, ovviamente, necessità di un lavoro di scrittura che, in nome dell’effetto comico, rischia di banalizzare il personaggio, imprigionato nel suo cliché di scaltro grezzone.

Anche in questo caso, la serie ci offre spunti di approfondimento, trovando sempre il modo di non adagiarsi sugli allori. Per esempio, arrivati a fine stagione si potrebbe pensare che Lamb sia uscito da un cliché per finire dentro un altro, cioè quello del burbero misantropo che però, sotto sotto, vuole bene ai suoi sottoposti. È un risvolto così evidente, da essere perfino verbalizzato da Standish in modo esplicito.

Solo che a quel punto Lamb non ci sta, e blasta la stessa compagna di una vita con parole veritiere ma durissime, che riguardano l’alcolismo di lei e il fatto che la dipendenza le ha impedito, nel corso degli anni, di vedere certe realtà che pure aveva sotto il suo naso.
Anche qui, una prova di umanità, perché nella vita reale molto raramente succede che le persone smussino i loro spigoli alla prima occasione: più frequentemente se li tengono fino all’ultimo, anche quando ci hanno effettivamente mostrato che sotto c’è di più.

Insomma, nella sua destrutturazione del mito inglese dello spionaggio, Slow Horses mantiene alcuni elementi classici del genere, avendo però cura di costruire personaggi diversi, sorprendenti, molto “normali”, così da darci la possibilità non solo di guardare degli eroi su uno schermo, ma anche di sentirci più naturalmente parte della storia, visto che i protagonisti sono molto più simili a noi rispetto alla tradizione.

Fino a un certo punto, naturalmente: non è tanto la fisicità di quel personaggio o l’abilità sparare di quell’altro, a sembrarci sovrannaturale, quanto la capacità di Lamb di avere sempre la risposta migliore, più cinica, più sarcastica, più intelligente, a qualunque questione gli venga posta. Quello si è un superpotere che tutti vorremmo, specie quando, sotto la doccia, ripensiamo alle risposte che avremmo voluto dare e non abbiamo mai dato.

Appuntamento alla prossima stagione, dove a quanto pare ci sarà Hugo Weaving, mitico agente Smith di Matrix nonché Elrond de Il Signore degli Anelli. Ci sarà da divertirsi.



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