Un ultimo saluto a The Crown di Diego Castelli
Si è conclusa la serie di Netflix dedicata alla Corona inglese, fra i progetti più costosi e meglio riusciti della piattaforma
ATTENZIONE SPOILER!
Non volevo lasciar finire l’anno senza spendere qualche parola per gli ultimi, ultimissimi episodi di The Crown, che chiudono per sempre la serie di Peter Morgan e, in qualche misura, sembrano anche chiudere una certa fase di Netflix, la piattaforma che per dieci anni abbondanti ha contribuito grandemente a cambiare il modo in cui fruiamo di film e serie tv nel mondo, ma che si sta evolvendo essa stessa in modi almeno in parte imprevedibili.
Parlare di The Crown significa salutare una delle migliori serie tv della sua generazione, ma anche fare i conti con alcune critiche e cogliere la portata più generale di temi quali il rapporto fra realtà e finzione, il dovere/opportunità di rispettare la Storia, perfino i confini di cosa sarebbe o non sarebbe lecito fare con una storia (stavolta con la S minuscola).
In verità, sul tema realtà-finzione abbiamo già detto molto nella recensione dei primi quattro episodi stagionali, e magari vi rimando a quell’articolo per non essere ridondante.
Peraltro, bisogna anche dire che nel momendo in cui la serie, nei suoi episodi finali, si allontana da quel grumo di sensazioni contrastanti e convinzioni feroci (anche di natura opposta) che è la figura di Diana, il tema del rapporto di The Crown con i fatti storici diventa improvvisamente meno teso, più sfumato. Per dirla in maniera più semplice, è più facile trovare gente ossessionata con i dettagli della vita e della morte di Diana, che non persone ugualmente ossessionate sui singoli particolari della storia d’amore fra William e Kate (che pure i loro fan accaniti li hanno eccome).
Da questo punto di vista, l’intera struttura della serie è sembrata potersi nuovamente rilassare, mollando l’urgenza di quel pezzo così importante e “sentito” della vicenda, per ritrovare una forma più simile a quella delle passate stagioni, con anche episodi monotematici e in qualche misura autoconclusivi, vedi l’ottavo dedicato alla morte di Margaret.
Avevo molto apprezzato gli episodi su Diana, pur riconoscendone un tasso più alto di melodramma e soap opera, ma nel vedere le ultime puntate, dove paradossalmente Morgan aveva a che fare con eventi più “freddi”, meno controversi, meno spiccatamente drammatici (il matrimonio di Carlo e Camilla, l’inizio della storia di William e Kate, il rapporto fra Elizabeth e Tony Blair), ho avuto l’impressione di tornare alla vera The Crown.
La vera The Crown ha qualcosa in comune con Downton Abbey. È cioè quella serie che, mescolando realtà e finzione, costruisce un intero mondo di personaggi, istituzioni, procedure, che sembra assurgere a un qualche livello mistico e magico, e che diventa interessante proprio quando si concentra sul particolare di piccoli gesti e rituali, che non sui grandi fatti dirompenti che pure fanno battere il cuore.
In fondo è uno dei temi esplicitamente trattati dai protagonisti lungo tutta la serie, quello cioè della creazione di un mistero intorno alla Corona, che più rimane lontana dalle cose mondane, e più viene apprezzata da un pubblico che effettivamente la vuole così, “diversa” dai suoi sudditi.
Un tema che, naturalmente, si intreccia fin dall’inizio col tipo di ruolo che ogni personaggio vuole interpretare all’interno del carrozzone: Elizabeth sceglie fin dalla giovane età di sacrificare sé stessa in nome della costruzione di una figura quasi mitologica, tutta reale (nel senso di regalità) e poco umana. Carlo, dal canto suo, si fa interprete di una spinta verso il popolo, verso la modernità e lo svecchiamento (e anche in nome dell’ambizione personale). William non fa in tempo a costruire la sua reale identità adulta, ma sembra rappresentare una sorta di compromesso fra le due posizioni precedenti, perché conscio dell’importanza di essere il primogenito e il futuro re, ma anche desideroso, per esempio, di vivere un amore che sia realmente sincero e libero da costrizioni (a fronte di una nonna sposatasi a tavolino e di un padre che, vabbè, lasciamo perdere le sue vicende amorose).
Pur in presenza dei grandi mezzi della serie più costosa di sempre per Netflix, a fare la differenza è sempre la scrittura di Peter Morgan, che “monta” insieme gli eventi grandi e (soprattutto) piccoli in precisissima funzione della resa drammaturgica; che ammanta ogni avvenimento, ogni dialogo, perfino ogni frase, di una particolare solennità, donandogli un’eco che sempre riverbera su tutto il resto della serie con riferimenti ora espliciti ora nascosti, ma sempre potenti; infine, una scrittura che ogni volta sceglie di catturare un certo lato dei personaggi, approfondendoli con precisione prima di ri-allargare lo sguardo verso il quadro generale.
Soprattutto, una scrittura che, non so quanto dichiaratamente, non ha potuto non modellarsi sulla fine della vicenda di Elisabetta, morta durante le riprese.
All’epoca, Morgan disse che la produzione si sarebbe fermata per rispetto, ma era facile immaginare che, per quanto The Crown fosse destinata a interrompere il suo racconto almeno quindici anni prima della morte, “qualcosa” sarebbe accaduto.
Quel qualcosa è soprattutto un ultimo episodio, terminante con una lunghissima inquadratura in chiesa, in cui la protagonista cammina verso la luce, che sembra proprio fatto su misura per essere un ultimo saluto. In esso, con anche il supporto delle tue altre regine, ovvero Claire Foy e Olivia Colman, che compaiono come personificazioni cinematografiche dei tormenti interiori di Elizabeth, Morgan sceglie di dare voce ai dubbi della protagonista, che si chiede se non sia il caso di abdicare, magari addirittura con l’obiettivo di saltare una generazione, affidando la pesante corona al nipote William (interpretato da
Ed McVey, ennesimo esempio di ottimo casting di questa serie).
Ebbene, quello è un tormento interiore di cui, giusto per tornare al tema realtà-finzione, Peter Morgan può sapere molto poco. Tuttavia, lo usa per tornare a quello che è il vero tema centrale di una serie che si chiama “La Corona”, cioè il peso e il ruolo del potere, le difficoltà di comprenderlo e amministrarlo, l’influenza che esso può avere su una singola persona, quasi sempre troppo piccola e fragile per sorreggerlo tutto, e destinata quindi o a spezzarsi, o a modificarsi profondamente per poterlo sostenere (che poi è quello che succede alla giovane Elizabeth, quella che limonava coi soldati appena dopo la guerra, e che diventa la rigida statua che sappiamo ora della fine della serie).
Se ci portiamo a casa qualcosa da questa serie, e secondo me ci portiamo a casa tantissimo, è proprio la sua capacità di raccontare singole persone, singoli individui, cercando di mostrare l’umanità di figure solitamente lontanissime, riuscendo al contempo a mostrare che in effetti no, non sono persone come le altre. Ma non per qualche zerbinata forma di agiografia (per quanto sia innegabile che Morgan, probabilmente, tratti i reali con più guanti di come meriterebbero, a partire da un Carlo nobilitato dal volto e dal carisma di Dominic West). Qui non si tratta di giudicare persone realmente esistenti. Si tratta invece di prendere spunto da quelle persone per costruire un grande affresco che ci racconti qualcosa di tutte le persone, reali e sudditi, che volenti o nolenti, a seconda della loro posizione, devono scegliere come adattarsi all’esistenza del potere e delle sue molte sfaccettature.
Con una curiosità quasi fanciullesca, unita a un’abilità narrativa con pochi eguali, Peter Morgan ha passato gli ultimi sette anni a raccontarci un mondo apparentemente reale, probabilmente fantastico, eppure realistico “di ritorno”.
Soprattutto, un mondo che è stato splendido conoscere, accogliendo con lo stesso livello di gioia i piccoli affetti, le soventi commozioni, le disquisizioni accademiche e le meravigliose ricostruzioni scenografiche e costumistiche.
Una serie grossa, grande e totalizzante, che quando ha ricevuto critiche le ha ricevute soprattutto per quello stridere fra la rappresentazione sullo schermo e quella nei nostri cervelli, quando una maggiore conoscenza degli eventi rispetto a quelli delle prime stagioni (romanzati allo stesso modo, ovviamente) scatenava l’integralismo storico. Eppure, una serie che non è mai venuta meno alla sua coerenza interna, ai suoi propositi di racconto, alla sua tensione dal particolare al generale.
(Per William e Kate, vedere foto sotto, servirebbe un altro articolo, ma mi è piaciuto il modo in cui Morgan, pur non calcando la mano su un certo, famoso opportunismo della madre di Kate, ne ha raccontato la vicenda con i toni della normalità quasi da teen drama zuccheroso, che in quella famiglia rappresenta la una sorpresa vera)
Resta un tema difficile da definire e concludere oggi, che riguarda il futuro di Netflix.
Se all’inizio la piattaforma che ha istituzionalizzato il binge watching era anche una specie di “seconda HBO”, cioè un player mediatico capace di sperimentare, stupire, osare, oggi sono in molti a parlare di un progressivo scivolamento di Netflix verso un’identità più generalista, con un più alto tasso di show nazionalpopolari, di qualità spesso discutibile, ma più appetibili per un pubblico largo che garantisce più abbonamenti.
In questo senso, The Crown ha rappresentato una specie di ponte.
Certamente è una serie nazionalpopolare nella storia e nei personaggi (specie quando si è arrivati vicini ai nostri giorni), nella vocazione storica, nella generale accessibilità del tutto. Insomma, una serie da Rai Uno, o da BBC dai, che è meglio.
Allo stesso tempo, è davvero una serie d’autore, che non ha mai rinunciato a certe finezze registiche e di scrittura che starebbero benissimo anche su reti e piattaforme orgogliosamente d’élite.
Quale sarà la sua eredità, lo vedremo: The Crown potrebbe essere stata l’ultima serie così costosa e così ambiziosa di Netflix, ultimo baluardo prima di un’infilata senza fine di fiction alla buona. Oppure rimarrà un faro (uno dei fari) da qui Netflix non potrà mai staccarsi del tutto, pena perdere la sua identità e, soprattutto, la sua capacità di far parlare di sé (per attirare nuovi abbonati conta pure quello).
Ai posteri l’ardua sentenza, mentre io la mia sentenza definitiva su The Crown la piazzo qui, alla fine di tutto: capolavoro senza se e senza ma.