Sex Education 4 – Un addio confuso di Diego Castelli
L’ultima stagione dell’amata serie inglese su teenager e sesso prova a chiudere tutti i cerchi aprendone di nuovi, e alla fine si fa fatica
Sono passati due anni da quando scrivevamo della terza stagione di Sex Education, quando ancora non sapevamo che sarebbe stato la penultima.
Non ne scrivevamo benissimo, per lo meno in confronto alle prime due, per un paio di motivi: da una parte una certa ripetitività dei temi, unita alla sparizione del tema della clinica scolastica; dall’altra la pessima gestione del personaggio di Hope, la nuova preside cattiva rivelatasi figura ampiamente fuori fuoco.
Una volta saputo che la quarta stagione sarebbe stata l’ultima, e avendo terminato la terza con la notizia della chiusura del liceo in cui i protagonisti si erano mossi per tre anni, sapevamo che Netflix era chiamata a un compito non semplice: ridare freschezza a un prodotto che ne aveva persa parecchia, e allo stesso tempo portarlo a conclusione, trovando dunque il modo di essere nuova e insieme coerente con se stessa e con le storie narrate fino a quel momento.
In effetti, il tentativo di fare entrambe le cose c’è stato. I risultati, però, sono altalenanti.
Come detto, il vecchio liceo non c’è più. Buona parte dei nostri protagonisti, a partire da Otis ed Eric, devono dunque trasferirsi in una nuova struttura, con qualche eccezione: Maeve va in America per coltivare il sogno di diventare scrittrice (a farle da mentore c’è Dan Levy di Schitt’s Creek), mentre il burbero ma tenero Adam smette di studiare e va a lavorare in una stalla.
Il Cavendish College, il nuovo liceo, è una specie di colorato sogno inclusivo in cui la struttura è in larga parte autogestita dagli studenti, in cui il gossip è bandito perché cattivo e pericoloso, e in cui minoranze di tutti i generi fioriscono in ogni angolo, diventando maggioranza sullo schermo.
Otis arriva alla nuova scuola con le migliori speranze e con l’intento dichiarato di riprendere la sua attività di consulente sessuale amatoriale. Quello che non sa è che c’è già una ragazza che fa la stessa cosa, tale “O”, e la faida inevitabile fra i due rappresenterà la spina dorsale narrativa dell’intera stagione.
Non c’è solo questo però, perché le sottostorie sono molteplici: dalle difficoltà della madre di Otis con la nuova bambina, al rapporto a distanza fra lo stesso Otis e Maeve, separati da un oceano.
(E naturalmente l’avventura letteraria di Maeve incontrerà le sue difficoltà)
Poi c’è Eric che vorrebbe farsi battezzare per seguire le radici cristiane della sua famiglia, ma vive con comprensibile pena l’atteggiamento della comunità di famiglia verso i gay.
Adam è ancora alle prese con il rapporto difficile con il padre, che insegna proprio al Cavendish College ed è ancora impegnato in un percorso di crescita personale.
Jackson teme di avere un problema ai testicoli che lo porta a farsi domande sul suo padre biologico.
Isaac, pure lui alla nuova scuola, ha problemi di barriere architettoniche e si fa aiutare da Aimee, con cui nasce un’inaspettata amicizia.
A questo dovete aggiungere le storie dei numerosi nuovi personaggi, a partire dalla citata O, ma passando anche per la ragazza sorda Aisha, per la coppia trans Abbi e Roman, per Cal che sta a sua volta affrontando un percorso di transizione (in realtà questo non è un personaggio nuovo), e probabilmente mi sto dimenticando qualcuno.
Se vi sentite leggermente soverchiati è normale. Banalmente, nella quarta stagione di Sex Education c’è troppa, troppa roba.
Questo problema ha due conseguenze principali.
La prima riguarda la rappresentazione del Cavendish College. Il tentativo di metterci dentro (e di mettere dentro alla stagione) praticamente tutti i temi dell’inclusività è particolarmente smaccato e suona forzato, come se si fossero dovute obbligatoriamente barrare tutte le caselle del mondo LGBTQI+, a cui probabilmente viene anche aggiunta qualche lettera aggiuntiva per fare numero.
C’è tutto: gay, trans, asessuali, bisessuali, disabilità di vario genere e forma, il bullismo, le molestie, a cui dobbiamo aggiungere certi temi esterni come la depressione post-parto e la tossicodipendenza.
Non c’è niente di male, naturalmente, nel voler dare rappresentazione a quante più minoranze possibili, e certo una serie come Sex Education è più indicata di altre per farlo.
Il risultato inevitabile, però, è la totale perdita di realismo e il senso di struttura elefantiaca e traballante: il Cavendish College è un luogo semi-utopico, completamente slegato dalla realtà, e per quando Sex Education non sia mai stata una serie davvero realistica nel suo modo buffo e commedioso di mettere in scena adolescenti erotomani E super consapevoli, ormai siamo finiti completamente nel fantasy, e in questo la serie non può che perderci.
Ma la conseguenza più pericolosa del troppa roba è che, semplicemente, non c’è tempo per approfondire. Se con i vecchi personaggi possiamo appoggiarci a tre stagioni di racconto, potendo cogliere le novità e gli sviluppi in maniera più digeribile (ma non sempre), i nuovi personaggi finiscono inevitabilmente con l’essere delle macchiette che hanno la sola funzione di rappresentare la categoria a cui appartegono.
Giusto il tempo di mettere sul piatto un’identità tagliata con l’accetta e un problema specifico, per poi portare in pochi, stretti passaggi alla risoluzione di quel problema. Non è così che si creano personaggi rotondi e memorabili, e francamente non mi sembra nemmeno il modo migliore per rappresentare le istanze inclusive, che vengono affollate in gran numero per poter essere abbracciate tutte, ma che si approfondiscono poco e senza lasciare grandi emozioni.
C’è anche un’evidente corsa al lieto fine che toglie parecchia forza al tutto.
Gli esempi li vediamo meglio sotto, in una sezione più spoilerosa, ma l’ansia di chiudere tutti i cerchi lasciando gli spettatori col sorriso sulle labbra (scelta di per sé più che legittima) finisce con lo svilire i problemi dei personaggi, specie di quelli nuovi, che risolvono le loro questioni con tre dialoghi e due faccette.
E per quanto riguarda i vecchi, parzialmente imprigionati in ruoli che hanno fin dalla prima stagione e che non possono scrollarsi di dosso, vediamo alcune semplici ripetizioni di meccaniche già viste negli scorsi anni, che effettivamente arrivano a una risoluzione ma che intanto, per almeno 5-6 episodi, si sono presentate in modo non molto diverso da quanto visto in passato.
Non è un caso, forse, che il finale migliore fra tutte le storie è quello più agrodolce e meno consolatorio, che consente di andare verso una crescita effettiva.
Tutto da buttare dunque? Naturalmente no.
In parte perché Sex Education mantiene la capacità di ritagliarsi momenti di tenera comicità (o comica tenerezza, vedete voi), e di affrontare di petto certe questioni che, ancora oggi, altre serie maneggerebbero con più timidezza.
In parte perché certe storie sembrano effettivamente meglio scritte di altre, e penso in particolare alla madre di Otis e ai genitori di Adam.
Però questa è una stagione finale, non una di mezzo.
È una stagione in cui bisognava sparare tutte le cartucce, dare fondo a ogni creatività, prendere i personaggi e buttarli in un ultimo abisso per procedere a un’ultima risalita, costruire un’epica che ci portasse verso ultimi minuti indimenticabili in cui far calare lacrime e scolpire ricordi.
Tutto questo, semplicemente non succede. Troppa foga nel raccontare mille personaggi nuovi, troppa ansia da inclusione anche al prezzo di snellire troppo le linee narrative, poco coraggio nel ribaltare i protagonisti, che sì, imparano delle cose, ma a conti fatti non ci sembrano così diversi rispetto alla fine della passata stagione.
Sex Education resta una serie centrale di questi anni, ma a lasciare il vero solco è stata la sua prima metà. Per il resto, un compitino.
Ma facciamo qualche esempio.
DA QUI IN POI SPOILER SU TUTTA LA QUARTA STAGIONE
Se vogliamo trovare difetti specifici, riguardano tutti la fretta con cui si vuole raccontare storie che inevitabilmente hanno poco respiro.
La più emblematica è forse quella di Jackson: prima la paura per il tumore al testicolo, poi la voglia di conoscere la propria storia e il padre biologico. Era materiale per altre due stagioni, che viene solo abbozzato e buttato via.
L’avventura letteraria di Maeve vive di pochissimi momenti: il professore che la boccia, la rivista che la elogia, la ricomposizione col professore rimesso al suo posto. Tre pennellate e ciao.
Tutta la storia di Otis ha un po’ più di respiro, ma finisce inevitabilmente nell’assurdo: che nella prima stagione questo ragazzino si mettesse a fare il consulente amatoriale faceva ridere ed era tenero, che ora invece combatta con un’altra consulente per ottenere un ruolo ufficiale per il quale ovviamente non ha alcuna qualifica accettabile, fa passare la vicenda dalla tenerezza al criminale.
No Otis, non ha senso che tu parli e consigli persone che hanno disforia di genere o problemi medici potenzialmente seri, nella realtà finisce che fai solo danni.
La storia di Eric e della sua congrega supera ampiamente il confine dello stucchevole, e anche qui tre-passaggi-tre: Eric vuole battezzarsi, Eric scappa via perché non lo accettano, la comunità religiosa decide che invece gli vuole bene.
Non c’è nessuna sfumatura, nessuna vera progressione, ma balzi da uno stadio all’altro.
Anche qui, peraltro, irrealismo e utopia: mi spiace, amici e amiche gay all’ascolto, ma se sperate che i preti improvvisamente vi considerino persone normali, potete solo aspettare tutta la vita.
I problemi di Cal e della sua transizione sono cose serie che vengono trattate con larga superficialità. In questa vicenda c’è l’evidente tentativo di fare una critica politico-sociale verso un sistema sanitario (soprattutto americano, anche se la serie è inglese) che non mostra sufficiente tempismo ed empatia quando si tratta di aiutare persone giovani con disforia di genere.
Di nuovo, però, abbiamo una storia che procede per saltoni, e che non trova nemmeno una conclusione così soddisfacente, è più che altro un “si vedrà”.
Come detto, non tutto è da buttare. Se la vicenda letteraria di Maeve è stiracchiata, più interessante quella legata alla morte di sua madre. Il funerale della donna, insieme triste, comico e pieno di disagio, è una delle scene migliori della stagione.
Ugualmente, il percorso che riporta il padre di Adam dalla moglie, avendogli fatto passare attraverso un verso percorso di crescita, è un cerchio che si chiude nel modo giusto, perché invece di aggiungere inutile carne al fuoco, finisce di cuocere quella che già c’era.
Ma il finale migliore è per me quello fra Otis e Maeve. Alla fine della serie, i due di fatto si lasciano, perché Maeve si trasferisce in America e Otis sa che una storia a distanza non funzionerebbe. Maeve gli manda una lettera in cui lo ringrazia di averla fatta crescere come donna e come persona, e la serie termina con il ragazzo che guarda fuori dalla finestra con occhio malinconico.
È un bel finale perché Sex Education non è mai stata una serie da lieti fini e vissero felici e contenti. È appunto una serie di crescita, di scoperta, di consapevolezze razionali e irrazionali fragilità, e nel decidere che i due protagonisti, che ci avevano messo una vita ad accettare i reciproci sentimenti, alla fine si lascino, Sex Education recupera con un colpo di reni il realismo perduto: la maggior parte delle storie fra adolescenti non finisce nel matrimonio, e Otis e Maeve non fanno eccezione. Insieme però, hanno percorso un pezzo di strada che permetterà loro di affrontare la vita adulta con qualche arma in più, sapendo che il diventare grandi non risolve tutti i problemi, ma ne presenta solo di nuovi.
È lì, sull’aver condiviso un tratto di strada insieme, avendo capito qualcosa di noi e del mondo, che Sex Education ci lascia l’eredità migliore. Meglio non pensare alla quantità di cianfrusaglie finite inultilmente sul sentiero.