1 Settembre 2023

One Piece su Netflix – Almeno è meglio di Cowboy Bebop di Diego Castelli

Il live action tratto dall’omonimo manga/anime ce la mette tutta per essere fedele all’originale. E forse ci prova troppo.

Pilot

Se guardiamo alle principali critiche normalmente rivolte a prodotti cine-seriali tratti da altri racconti (che possono essere a loro volta cine-seriali, ma anche letterari, fumettistici ecc), credo che la critica statisticamente più presente sia sempre una: “non è abbastanza fedele all’originale”.

Se ora guardiamo a One Piece, la serie di Netflix tratta dall’omonimo manga di Eiichirō Oda (a sua volta diventato un anime di enorme successo), credo che, per certi versi, ci troviamo di fronte a una delle trasposizioni più fedeli mai viste, anche da un punto di vista di intenzione a monte del processo, a partire dall’autore del fumetto che, in queste settimane, si è speso molto per raccontare un processo produttivo teso a restituire anche sul nuovo medium la stessa atmosfera del manga e del cartone animato.

Ebbene, se in queste ore spulciate internet troverete numerosi fan entusiasti di questa operazione così concepita, un risultato niente affatto scontato (poi da valutare sul medio lungo periodo, ma insomma, in molti pensavano di trovare una shitstorm che non è arrivata).
Purtroppo, però, stavolta non mi posso accodare. Per me One Piece ha dato un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che i testi andrebbero adattati al mezzo di arrivo, e che una mediazione andrebbe sempre messa in conto. E ve lo dice uno che avrebbe voluto vedere Wolverine con la tutina nera e gialla nei film di Bryan Singer.

Poi oh, meglio di Cowboy Bebop eh. Ma a ben guardare non era un compito così difficile…

A questo punto, quando già sento fremere d’odio decine di polpastrelli, dovrei aggiungere l’ulteriore carico, cioè il fatto che io non sono un grande esperto e/o fan di One Piece. La mia esperienza con la serie si limita a un certo numero di episodi visti in tv, senza troppo metodo. la verità è che di One Piece non mi è mai piaciuto il disegno. Purissimo gusto personale, ma abbastanza per non appassionarmici mai più di tanto.

E quindi siamo di fronte alla solita questione del “Ma ti è permesso giudicarla anche se non sei esperto dell’originale?”
La risposta a questa domanda è “ovvio che sì”, anche se va detto che, nel caso di One Piece, la fama dell’originale è così ampia, così internazionale, e di così lunga durata, che è legittimo chiedersi se Netflix, con la sua serie, puntasse a trovare anche un pubblico lontano dagli estimatori delle versioni disegnate, o se invece, in termini di strategia e aspettative commerciali, si aspettasse di interessare solo i (numerosissimi) appassionati “già da prima”.

Ad ogni modo, a questo giro vi beccate me.

Giusto per dare un po’ di contesto, One Piece (il fumetto) nasce nel luglio del 1997, è attivo ancora oggi dopo 26 anni compiuti, ed è uno dei manga di maggior successo della storia.
Racconta la storia di Monkey D. Luffy (in Italia è conosciuto anche come Rufy o come Rubber, per questioni di doppiaggio e adattamento che non è pensabile riassumere qui), un ragazzo cresciuto con un unico, grande desiderio: diventare il re di tutti i pirati e trovare il tesoro segreto del famoso Gol D. Roger, che ne rivelò l’esistenza in punto di morte. Il tesoro, di cui nessuno conosce la natura precisa, si chiama per l’appunto “One Piece”.

Per compiere la sua missione, in un mondo dominato dai mari che non ha le fattezze o la geografia della nostra Terra, Luffy mette insieme una variegata ciurma di novelli pirati, ognuno mosso da carattere e motivazioni differenti, per poi iniziare un’esplorazione che, nelle sue dinamiche più basiche, è ciò che ha permesso al manga di durare così a lungo: un enorme mare da esplorare, e un numero potenzialmente infinito di nemici, sorprese e meraviglie da scoprire, prima di arrivare al traguardo.

Vale la pena poi di aggiungere la più nota caratteristica di Luffy: quando era ancora un bambino, il ragazzo ha mangiato un frutto del diavolo, che gli ha dato vistosi poteri “gommosi”. Luffy si allunga, si stiracchia, si gonfia, e usa queste sue abilità come strumenti di vita quotidiana e, naturalmente, di combattimento.
Se siete totalmente digiuni di One Piece e questo twist vi suona improvviso, in una storia che finora ha parlato di pirati, beh, sappiate che la saga è tutta così: esagerata, creativa, sorprendente, e piena di cose che col realismo hanno orgogliosamente poco a che fare.

Veniamo a Netflix. Come detto, la piattaforma sceglie un approccio di grande fedeltà all’originale, bollato come tale dallo stesso Eiichirō Oda: nella percezione di un fan non può che essere un sigillo importante.

Essere fedeli a One Piece, in questo caso, significa molte cose diverse.
In primis significa cercare di raccontare le stesse cose, pur nella limitazione di un numero minore di episodi (per capirci, in otto puntate Netflix comprime una storia che nell’anime ne occupa circa 60).
Poi si tratta di restare fedeli a un certo tipo di estetica folle, colorata, barocca, esagerata sia nella messa in scena dei combattimenti, dei poteri e delle abilità, sia nelle più banali scenografie di sfondo e legate alle imbarcazioni.
Per non parlare dell’intenzione di fare un casting che si avvicini il più possibile all’originale: oltre a Luffy, interpretato da Iñaki Godoy, ci sono figure ormai iconiche come lo spadaccino Zoro (Mackenyu), la ladra Nami (Emily Rudd), il tenero bugiardo e abile cecchino Usop (Jacob Romero Gibson) e molti altri, compresi alcuni nemici dalle fattezze molto particolari, che si parli di pirati-pagliacci in grado di fare a pezzi il proprio corpo e ricomporlo, o tribù di uomini-pesce che… beh sono uomini pesce, quindi potete immaginarvi un aspetto non esattamente ordinario.

Da ognuno di questi punti di vista (ma pure da altri) i creatori della serie Matt Owens e Steven Maeda sembrano porsi costamente la domanda “come possiamo rendere questo episodio, questa scena, questa inquadratura il più simile possibile a One Piece?” per poi buttarsi a (uomo)pesce sulla soluzione che gli sembra più vicina all’originale.

Questa, è bene dirlo chiaramente, è un’operazione non solo legittima, ma anche molto richiesta da tanti spettatori di film e serie che, negli anni, hanno sofferto differenze che consideravano troppo vistose e ingiustificate fra materiale di arrivo e di partenza.

Che poi però sia un’operazione riuscita, o che a conti fatti si sia rivelata ragionevole, questo è un altro paio di maniche, e si tratta di giudizi in larga parte soggettivi. In queste ore sto leggendo commenti entusiasti per questa o quella inquadratura, questa o quella citazione, accanto a feroci lamentele per le inevitabili omissioni, correzioni e rimaneggiamenti vari in nome della compressione in una stagione più corta.

Non ho difficoltà a trovare diversi elementi che ho effettivamente apprezzato di questa trasposizione. Il fatto che una saga pazzerella come One Piece abbia mantenuto un effettivo, alto grado di follia, è insieme necessario ma anche coraggioso. Non era scontata la rinuncia pressoché totale al realismo in nome di un’aderenza all’originale che non riguarda solo l’elemento fantasy di corpi allungabili e uomini pesce, ma anche scelte più piccole, linguistiche, come il fatto che Luffy annunci a gran voce le sue mosse (che è proprio uno stilema dell’animazione giapponese), o il fatto che il suo entusiasmo e ottimismo, così come il suo costante appetito, siano continuamente sottolineati ed esibiti: di nuovo, sono cose che in una serie live action occidentale vediamo pochissimo, e che in fondo è giusto trovare qui.

L’amore e la passione che creatori e attori hanno messo in questa trasposizione è evidente, e credo abbia avuto un peso nell’ammorbidire preventivamente una quota dei fan più accaniti e potenzialmente più critici.
Questa One Piece è anche, forse soprattutto, un grosso blocco di fanservice, e in questo caso non lo considero un difetto: se un largo pubblico segue una storia da 25 anni, dargliene una nuova versione che sia prima di tutto debitrice di quella vecchia, a così tanti livelli, è una coccola, una carezza, una copertina di Linus da avvolgersi intorno per ricordare languidamente il tempo che fu.

Qualcosa che, come accennato, funziona molto meglio rispetto alla versione live action di Cowboy Bebop, sempre di Netflix.
Ci sono motivi abbastanza banali per questo fatto (One Piece è scritta con più rigore e ha un protagonista più somigliante), ma anche alcune questioni più sottili e di contesto: Cowboy Bebop (l’anime) si portava dietro una precisa malinconia, un’anima noir che una versione seriale in cui cerchi di mantenere gli stessi colori e gli stessi costumi non è in grado di riprodurre. Una versione live action di Cowboy Bebop avrebbe avuto bisogno di un distanziamento maggiore, che cogliesse meglio il mood del cartone anche a costo di sacrificare la sua somiglianza nuda e cruda con l’originale. Avere entrambe le cose era virtualmente impossibile.

Con One Piece, invece, questo problema si pone di meno. Se un anime è già di suo esagerato, iperbolico e fracassone, una serie tv che provi a imitarlo rimane quasi automaticamente al sicuro dal pericolo di apparire troppo colorata o vistosa: anzi, come vedremo tra poco, il rischio vero è di non esserlo abbastanza.
One Piece è un adattamento migliore di Cowboy Bebop perché è realizzata meglio nelle sue varie componenti, ma anche perché, fin dall’inizio, era una serie in cui il concetto di “facciamo tutto uguale” aveva non solo senso, ma era quasi obbligatorio per non snaturare completamente il prodotto.

Ora però i pregi li ho finiti.

Se posso apprezzare l’approccio scelto per One Piece, sorridere affettuosamente all’appassionato coinvolgimento di Oda, e riconoscere che alcune cose sono riuscite più del previsto (fosse anche solo la capacità di comprimere una narrazione così ampia in sole otto puntate che effettivamente hanno un senso compiuto), però poi ci sono anche tante cose che non vanno.

Ci sono elementi estetici, alcuni specifici e altri più generali, per i quali sono stupito che, almeno per ora, non ci sia stata una critica più feroce.
Nel fumetto e nell’animazione giapponese esistono forme, linee di forza, metafore e iperboli visive, che funzionano necessariamente solo lì, in una sospensione dell’incredulità sostenuta in primo luogo dal fatto che quello che stiamo guardando non è effettivamente la realtà, ma disegni su un foglio.

Faccio tre esempi: quando Zoro, nell’anime, svela di portare tre spade perché una viene usata reggendo l’elsa con i denti, si ha l’immediata impressione di un personaggio fichissimo, dotato di una tecnica sorprendente. Quando si vede nella serie in live action, non capisco come il povero Zoro non possa passare per un cretino che si mette la spada in bocca perché non sa dove tenerla altrimenti.
Un esempio diverso riguarda le dimensioni dei personaggi: One Piece usa spesso dimensioni assurde, specie nei cattivi, in una modalità che la serie di Netflix non è riuscita a replicare nello stesso modo, probabilmente per questioni di budget (che pure è altissimo, 18 milioni a episodio). Morgan Mano d’Ascia è un facile esempio di personaggio che, alto tre metri e particolarmente “cool” in originale, diventa un normalissimo tizio alto come gli altri personaggi, che ha fatto discutibili scelte odontoiatriche.
Il terzo esempio riguarda gli uomini pesce, di cui fa parte uno dei grandi antagonisti della saga, ovvero Arlong. Su carta (o cartone) si tratta di creature imponenti, stravaganti, colorate, sproporzionate. Su Netflix, la scelta di procedere con il trucco prostetico (forse per una maggiore concretezza e, paradossalmente, realismo) ha prodotto più che altro dei tizi mascherati che sembrano lavorare a Gardaland.

Più in generale, One Piece ha la solita, inconfondibile patina di molte produzioni Netflix, specie quelle fantasy. Un’immagine leggermente slavata, pupazzosa, che rischia sempre di suonare finta. Di nuovo, questo era un problema più per Cowboy Bebop che per One Piece, ma resta il fatto che uno dei manga/anime dal tratto più particolare e riconoscibile (al punto che a me non piace) si trasforma nella solita serie fantasy di Netflix.

L’effetto, denunciato da più parti ora con occhio più critico ora più indulgente, è quello di una banda di cosplayer in libertà. Buoni cosplayer, credibili, roba da fartici le foto al Lucca Comics, ma sempre cosplayer, che non è esattamente un bell’effetto per una serie così costosa, tratta da un prodotto così famoso nel mondo.

Mi rendo conto di essermi dilungato in un confronto che non fa tanto parte del DNA di Serial Minds (il Villa mi bacchetterebbe), ma in questo caso viene più spontaneo proprio per la fama dell’originale, che non è un oscuro romanzello letto da quattro gatti, ma uno dei manga/anime più famosi del mondo, forse il più famoso fra quelli tuttora in produzione.

È però importante anche cercare di assumere una prospettiva diversa, perché One Piece è a tutti gli effetti una serie di Netflix che, al netto del suo livello di fanservice e amore per l’originale, è anche necessariamente un prodotto a sé stante.

Calcolando che, avendo visto in anteprima le puntate ed essendomi stupito di una reazione così positiva dei fan, probabilmente mi sbaglierò anche sui neofiti totali, per i quali fatico a immaginare un interesse in un prodotto che, a freddo, non potrà che apparire particolarmente strambo e fin troppo a metà strada fra un approccio occidentale e uno orientale.
Quella storia di Zoro e della spada in bocca vale anche e forse soprattutto per il normale spettatore da serie Netflix, quello che magari ha poca dimestichezza con gli anime: quando vedrà Zoro infilarsi in bocca la spada e combattere così, cosa gli impedirà di dire “ma cos’è sta baracconata?”

A conti fatti, cercando di trarre le fila di un discorso potenzialmente molto complesso, a me la One Piece di Netfliz sembra “poco”.
Dal punto di vista narrativo è un bigino di quattro anni di manga. Bigino ordinato e pulito, d’accordo, pure capace di evidenziare i punti chiave della psicologia dei personaggi, ma pur sempre qualcosa di necessariamente molto svelto, scolastico, senza slanci o sorprese particolari. Non mi sembra che il peso anche fisico di quattro anni di storie possa trovare uguale forza in otto episodi di binge watching, lasciandomi il sospetto che parte dell’entusiasmo visto finora derivi dalla possibilità, per chi già conosce la storia, di colmare coi propri ricordi un’epica che la serie, da sola, fatica a costruire.

Dal punto di vista visivo è la solita serie fantasy di Netflix, con tutta la creatività della creatura di Eiichirō Oda, realizzata però con effetti speciali non sempre perfetti, un generale senso di teatrale e di posticcio, e alcuni compromessi che depotenziano parecchio la forza plastica dell’originale.

E anche se guardiamo al casting, quello che troviamo sono figure scelte per la loro somiglianza (nei limiti del possibile), ma non c’è nessuno che metta sul piatto un carisma particolarmente riconoscibile, per il quale si spera di potersi affidare a certi iconici costumi e oggetti di scena (come il cappello di paglia di Luffy).

In breve, somiglia tanto all’originale, ma non fa ridere come l’originale, non appassiona allo stesso modo, né riesce a sorprendere tanto quanto.

La mia impressione è che la One Piece di Netflix sia esclusivamente un’appendice. One Piece già esiste, come manga e come anime, e già appassiona milioni di spettatori nel mondo. La sua versione live action ha l’indubbio pregio di “limitare i danni”, cercando di non incappare in quelli che molti fan hanno considerato errori imperdonabili in altri esperimenti simili. Questo però è un atteggiamento conservativo che non può salvare la serie da inevitabili scivoloni, e che soprattutto non le permette di vivere di un’anima propria.
È un’appendice, appunto, che si aggiunge a qualcosa di esistente e che può anche stupire in positivo proprio perché ci prova, e si può volerle bene per questo. Può rappresentare un porto (a sorpresa) accogliente per chi pensava di doverla odiare, e magari può spingere qualcuno a recuperare l’originale.

Forse l’irritazione per tanti esperimenti sbagliati ha portato consenso a quello che un esperimento non è. Forse, c’è anche questo a leggere i commenti online, è bastato non cambiare il colore della pelle del protagonisti (ci si accontenta di poco, verrebbe da dire).
Ma se One Piece è un grande manga e un grande anime, temo però che non sia una grande serie tv.
Sufficiente magari sì, ma grande no.

Perché seguire One Piece: scottati da troppe delusioni, i fan della saga si deliziano per il fatto che la versione di Netflix sia piuttosto somigliante all’originale, e non sia orrida come temevano.
Perché mollare One Piece: sembra poter aggiungere poco a chi già conosceva manga e anime, senza avere la forza di appassionare dal nulla chi non li conosce.




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