The Bear Seconda Stagione – Niente spoiler, solo gioia di Diego Castelli
Dopo una prima stagione sorprendente, The Bear riesce a superarsi, con un secondo ciclo di episodi praticamente perfetto
Per un po’ ho pensato di aspettare. La seconda stagione di The Bear arriverà in Italia su Disney+ il prossimo 16 agosto con tutti e dieci gli episodi, e poteva avere senso attendere per poterne scrivere con la relativa sicurezza che i suoi spettatori avessero avuto occasione di vederla.
E però Disney, parlo proprio con te, il 16 agosto? In Italia?
Per carità, avrete i vostri motivi, ho esperienza personale e diretta delle apparenti storture che a volte si creano in relazione a decorrenze dei contratti e ragionamenti editoriali che hanno un senso preciso durante le riunioni, e che tendono a perderlo agli occhi degli spettatori.
Però dai, il 16 agosto…
Per cui niente, non posso aspettare tanto, spero mi scuserete, anche perché l’idea è quella di alzare l’hype dei fan per una stagione magistrale, emozionante, praticamente perfetta.
Bastano poche righe per fare un riassunto strettamente narrativo di queste due annate.
Nella prima stagione di The Bear, il talentuoso ma complessato chef Carmen ‘Carmy’ Berzatto (occhio ai lapsus con “barzotto” perché è un attimo) lascia il ristorante stellato per cui lavorava, al fine di rilevare la piccola attività del fratello morto, fra problemi igienici, ristrettezze economiche, staff poco preparato e quant’altro.
Nella seconda stagione, Carmy e il suo team (con cui ora ha un rapporto di fiducia più saldo e costruito) decidono di tentare il grande salto, fondando un nuovo ristorante che dovrà essere figo, di classe, roba da far esplodere Tripadvisor.
Naturalmente, un’impresa del genere non può che prevedere altri intoppi, tensioni, vittorie e sconfitte, e la possibilità per i personaggi di coltivare nuovi sogni ma anche, naturalmente, nuove paure e frustrazioni.
Uno degli elementi che più saltavano all’occhio nella prima stagione di The Bear, era che un dramedy ambientato nel mondo della cucina potesse avere la stessa tensione del miglior thriller, non tanto per il dubbio sulla risoluzione o meno di certi problemi (anche), ma soprattutto per la capacità di mettere in scena lo stress psicologico dei protagonisti, costantemente schiacciati dall’ansia da prestazione, dalla scadenze inesorabili, dalla semplice e pura preoccupazione circa il loro futuro.
In questo senso, la seconda stagione non è da meno, anzi. Christopher Storer, showrunner della serie e regista di quasi tutti gli episodi, mostra nuovamente uno straordinario senso del ritmo, e la sua bravura si vede soprattutto nelle scene corali, in cui un nutrito cast di attori e attrici battaglia intorno ai fornelli nel difficile tentativo di mettere d’accordo ambizioni personali, paure debilitanti, odi e affetti in un continuo turbinio di stimoli.
I momenti di pausa sono pochi e piazzati saggiamente, ma quello che sempre rimane di The Bear è questa tensione invincibile che in parte ti porta a desiderare di non fare MAI quel mestiere, e in parte ti ricorda di trattare bene la gente che lavora nei ristoranti, perché io in un ambiente del genere durerei due minuti prima di mettermi a piangere in un angolo.
Dal primo all’ultimo episodio, il senso di urgenza e di pressione blocca lo spettatore sulla sedia, senza però privarlo di un elemento fondamentale, che in questa stagione sembra ancora più importante: il senso di crescita dei personaggi.
Se nella prima stagione Carmy aveva il compito di portare i suoi sottoposti da un livello zero (o anche sotto zero) a un dignitoso livello 1 (cercando nel frattempo di gestire i suoi stessi demoni), ora la sfida è fare qualche scatto in più, trasformando dei gira-hamburger di provincia in cuochi professionisti meritevoli, chissà, di una bella stella Michelin.
I percorsi di apprendimento sono fra gli elementi migliori di questa stagione, anche perché sono espliciti. Carmy manda fisicamente i suoi a studiare, ognuno in base alla sua predisposizione, e questi vanno e imparano, scrostandosi di dosso i loro pregiudizi e le loro pigrizie, e tornando pronti per una nuova sfida.
Questo percorso è particolarmente evidente con Richie, il “cugino” casinista e incazzoso, che nel settimo episodio, senza fare ulteriori spoiler, vive una specie di epifania. È una puntata straordinaria perché Richie non impara solo delle tecniche, bensì assorbe un sistema di valori. Un episodio che parla di gestione dei ristoranti stellati diventa una storia sul senso della vita, sulla costruzione di percorsi di soddisfazione personale, sulla semplice capacità e possibilità di scegliere la propria strada, e ha un valore straordinariamente universale, a prescindere dal nostro interesse per l’ambito specifico della cucina (che nel mio caso, fra parentesi, è davvero basso).
L’episodio appena precedente, il sesto, era dedicato a un lungo flashback con una cena di Natale quando ancora Michael, il fratello di Carmy interpretato da Jon Bernthal, era ancora vivo, e mostrava la stessa tensione che vediamo nella vita presente di Carmy.
È una parentesi importante nel corso della stagione, perché come mai prima vediamo l’ambiente in cui il protagonista è cresciuto, una famiglia dall’emotività precaria in cui si percepisce sia l’amore reciproco, sia l’impossibilità di costruire strutture solide, che diano alle persone un posto dove stare e una piattaforma da cui costruire.
Da questo punto di vista, il talento innato di Carmy è costantemente influenzato da questa precarietà, che è sia motore dell’azione (desiderio di rivincita, di stabilità, di regole e procedure) sia ostacolo al raggiungimento degli obiettivi (per il costante senso di inadeguatezza e per la difficoltà a gestire la pressione senza urlare e mandare tutti a quel paese).
In questa stagione, più ancora che nella prima, vediamo proprio questo: dopo aver capito di voler lavorare insieme, i vari personaggi devono però lavorare sui loro spigoli, sui loro pregi e sulle loro mancanze, smussando, levigando, qualche volta ribaltando la propria prospettiva.
Questo lavoro su se stessi, che la serie ci mostra in relazione alla cucina ma che potrebbe funzionare in qualunque contesto, non è un generico concetto che dobbiamo desumere dalla trama generale e da qualche battuta di dialogo. È qualcosa di concreto, materico, che percepiamo a pelle.
Sono ore di lavoro dietro un singolo piatto, sono disegni su un taccuino, sono insulti trattenuti a forza nel petto, sono grasso e sporco sulle mani, testate al muro, lacrime e vomito negli angoli delle strade.
La principale forza di The Bear, forse in questa stagione più ancora che nella prima, è quella di renderci realmente participi, con lo stomaco e il cuore oltre che con la testa, di un sogno difficile, sfibrante, forse nemmeno così remunerativo, ma che questi personaggi perseguono con una passione che non può non essere contagiosa.
Guardandoli si può essere ispirati, oppure al contrario si può decidere di vivere una vita radicalmente diversa dalla loro. Ma la sensazione chiara e limpida che si ha guardando The Bear, è quella di essere di fronte a un’umanità vera, sanguigna, che comunque la metti ti impone di guardare alla tua vita oltre che a quella dei personaggi.
Una serie “larger than life”, come dicono gli anglofoni, che trabocca dai confini del suo genere e della sua ambientazione, per assumere toni universali, esistenziali, quasi spirituali.
Una serie in cui, come c’è scritto nella cucina di Carmy e compagni, “ogni secondo conta”, e conta pure tanto.
Bellissima.