Rabbit Hole – Kiefer Sutherland e i complottoni di Diego Castelli
Era stato un agente segreto, poi è diventato presidente, e ora è un mezzo truffatore in fuga. Però Kiefer, stare fermo mai eh?
Quando abbiamo visto il trailer e la locandina di Rabbit Hole, la nuova serie con Kiefer Sutherland, ci siamo subito immaginati un ritorno all’azione muscolar-malinconica di Jack Bauer, con l’eroe chiamato a salvare il mondo a cazzotti e pistolettate, dopo la parentesi presidenziale di Designated Survivor.
In realtà, nella nuova serie di Paramount+ (che da noi arriverà probabilmente fra 2-3 mesi), il nostro buon Kiefer, ormai cinquantasettenne, deve proteggere soprattutto se stesso, ma considerando la quantità di complotti, segreti e tradimenti incrociati in cui è invischiato, è già quello un lavoraccio più che sufficiente a tenerlo impegnato come si deve.
(Ma comunque la democrazia la salverà, figurati se non ci arriva…)
Creata da Glenn Ficarra e John Requa – una coppia di autori e produttori che in vita loro hanno spaziato parecchio, da Babbo Bastardo a I Love you Philip Morris, passando per Cani e Gatti e This Is Us – Rabbit Hole ha per protagonista John Weir, sorta di esperto di spionaggio industriale che lavora su commissione. Come dice lui stesso, aiuta ricchi stronzi a far perdere soldi ad altri ricchi stronzi, in modo che i primi possano farne di più.
Una professione che comporta l’ideazione di complicati piani atti a manipolare il mercato, creare ad hoc scandali che possano rovinare la reputazione di un imprenditore concorrente, e tutta una serie di piccole e grandi truffe che, quando vengono messe in pratica, avvicinano la serie al genere heist movie, quello insomma dei ladri abilissimi che fregano la gente con macchinazioni elaborate, travestimenti e coordinazione millimetrica.
Solo che per Rabbit Hole questa non è la fine, ma solo l’inizio. Non stiamo guardando una serie verticale con casi di puntata in cui Weir e i suoi aiutanti mettono a segno colpi brillanti conditi da frasette smargiasse.
In realtà, fin dalla prima puntata e poi in crescendo, Weir finisce invischiato in un complottone in cui lui è accusato di omicidio, i suoi amici lo tradiscono e/o muoiono, e lui deve usare tutta la sua esperienza e abilità spionistica per arrivare alla verità.
Quindi niente caso di puntata, ma anzi serie orizzontalissima in cui a farla da padrone sono azione, suspense, e una precisa volontà di riempire la trama di sorprese, twist, rivelazioni inaspettate.
La cosa è talmente marcata che le sorprese non riguardano solo quelle “subite” da Weir e da noi con lui, ma anche quelle che lui fa subire a noi.
Gli spettatori, insomma, non vengono messi allo stesso piano del protagonista, condividendo con lui tutto il sapere e vivendo esattamente quello che vive lui.
Al contrario, oltre alle scomode verità che John deve scoprire, ci sono anche quelle che lo riguardano e che dobbiamo scoprire solo noi, che rimaniamo quindi l’ultima ruota del carro della conoscenza.
Non solo: ci sono dei flashback che riguardano l’infanzia di Jack e che a loro volta diventano materiale per ulteriori colpi di scena.
Avrete capito, insomma, che Rabbit Hole si muove consapevolmente su un sottilissimo filo del rasoio. Certo, tutti conosciamo le potenzialità di una trama articolata e piena zeppe di sorprese: chi guarda non ha il tempo di annoiarsi, ci si stupisce spesso, si rimane con l’impressione di aver visto episodi realmente “pieni” e appassionanti, e via dicendo.
D’altro canto, i rischi sono molteplici: più la trama è articolata e più c’è pericolo che diventi incomprensibile; più l’azione è esagerata e più rischia di diventare ridicola; più si spinge sul pedale della sorpresa, e più capita di imbattersi nei famigerati salti dello squalo, quei momenti in cui una storia passa improvvisamente da “che vicenda intrigante che sto seguendo” a “ma mi pigliate per il culo?”
E l’impressione, giusto per essere chiari, che è gli autori di Rabbit Hole abbiano comprato un’intera vasca piena di squali da saltare.
Però… però i primi due episodi reggono. Se novanta minuti complessivi non bastano per sapere se a un certo punto arriverà quel fastidioso senso di scollamento, bisogna pure riconoscere che un sacco di serie (e pure di film) non sanno nemmeno produrre decentemente quei novanta minuti.
Rabbit Hole invece sì: dal momento in cui le cose per John iniziano ad andare in vacca, si comincia a rotolare rapidamente per una china fatta di pericoli, segreti, fughe precipitose, e la sceneggiatura ha il pregio di farci seguire tutti questi avvenimenti incastrandoli su una struttura che resta comprensibile per tutto il tempo, al netto, ovviamente, delle informazioni che devono ancora rimanere misteriose.
C’è anche una (sana) consapevolezza di stare mettendo in scena una storia un po’ sopra le righe, e per questo non mancano momenti di alleggerimento e quasi di comicità (specie nel secondo episodio), né un riconoscimento sottile ma evidente del fatto che Kiefer Sutherland non è più di primo pelo: ok le scene d’azione, ma se si trova a menare le mani il buon John può anche perdere malamente.
Insomma, sarà anche per le aspettative caute che avevamo prima di vedere l’ennesimo ritorno di Kiefer Sutherland all’action (o simil-tale), ma questi primi due episodi di Rabbit Hole hanno piacevolmente impressionato.
Anche perché ora c’è proprio la voglia di vedere come procedere la vicenda, e gli autori hanno avuto anche l’accortezza (e la fiducia in se stessi) per aspettare la fine del secondo episodio per far arrivare in scena l’altro attore tutto-carisma della serie, ovvero Charles Dance, buon vecchio Tywin Lannister di Game of Thrones.
Sono giorni interessanti per il genere action-spionistico, anche a fronte dell’arrivo su Netflix di The Night Agent, serie di cui vi parlerà domani il Villa e che ha pure lei diverse frecce al suo arco. Anche se, a giudicare solo dai primi due episodi di entrambe, preferisco questa.
Che poi Rabbit Hole riesca a tenere anche sul medio-lungo periodo, condizione basilare per la votazione positiva di una serie (e in particolar modo di una serie come questa), lo vedremo, così come vedremo se e come si deciderà di mettere sul piatto qualche riflessione più generale e filosofica, al momento largamento fagocitata dalla necessità di correre correre correre.
Di certo, comunque, Rabbit Hole si è guadagnata un po’ di fiducia.
Perché seguire Rabbit Hole: è una serie rapida, frizzante, piena di sorprese, con un protagonista dal carisma ancora innegabile.
Perché mollare Rabbit Hole: una serie come questa corre un rischio più elevato di altre di diventare un pastrocchio inverosimile nel giro di 5-6 puntate.