The Last of Us Season Finale – Breaking Love, Breaking Bad di Diego Castelli
Il finale eccezionale di una stagione eccezionale
ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE DI THE LAST OF US
È stato strano, per me, rivedere il finale di stagione di The Last of Us, appena conclusasi su HBO (e su Sky e NOW in Italia).
Strano perché, quando l’avevo visto due mesi fa in anteprima, non era ancora tecnicamente completo (la scena della giraffa, famosa anche nel gioco, io l’ho vista con un fondale blu dietro l’animale), e strano perché, nel frattempo, si è chiacchierato moltissimo su questa prima stagione, nel bene e nel male, e inevitabilmente parte di quei discorsi sono finiti nella mia testa.
Discorsi sulla scarsa presenza di clicker e mostri vari rispetto al gioco, un elemento che avevo poco considerato durante la prima visione, ma che ora capisco possa essere venuto a noia a chi si aspettava un po’ più di azione fungina. Discorsi sulla forte verticalità delle puntate, che seguivano gli episodi del gioco ma che, trasportati nel vero mondo degli episodi, cioè una serie tv, possono essere risultati troppo compatti e affrettati. Discorsi (più prevedibili) sui cambiamenti fatti rispetto alla storia originale, molto pochi se li confrontiamo con altre trasposizioni, ma abbastanza (e nei punti giusti) per far incazzare questo e quello.
E nonostante questo, nonostante la legittimità di diversi punti di vista che possano anche avermi aiutato a cogliere difetti e difettini che non avevo notato durante quel singolo week end di binge watching, io ve lo devo dire ancora: non solo The Last of Us è una serie clamorosa, ma il suo finale è un episodio di una bellezza lacerante, senza se e senza ma, anche e forse soprattutto dopo la seconda visione.
Mi piacerebbe partire (ma non sarà un articolo di “reazione” alle critiche, promesso), da uno dei problemi sollevati da molti, cioè il fatto che The Last of Us sia a conti fatti poco sorprendente, molto aderente al genere a cui appartiene e, a conti fatti, troppo simile a The Walking Dead e soci per colpire davvero.
Il che, naturalmente, sarebbe anche comprensibile a fronte del tempo passato fra l’uscita del gioco (2013) e un 2023 in cui c’è stato molto più tempo per percepire quello stesso genere (postcapocalittico, zombiesco ecc) come troppo inflazionato.
Questo discorso, però, parte da un equivoco: nessuno ha mai detto che The Last of Us sarebbe stata una serie particolarmente originale. E questo perché, molto banalmente, nemmeno il gioco lo era.
La fortuna del titolo per Playstation non c’entrò nulla con la sua originalità in termini di genere o di giocabilità, quanto con la sua capacità di essere il punto più alto (o uno dei punti più alti) di quello stesso genere, con una commistione particolare e forse mai vista prima fra videogioco e cinema.
Un processo creativo e produttivo, oltre che un’intenzione editoriale, che in fondo non è tanto diversa da ciò che Naughty Dog, la casa di produzione del gioco, ha fatto anche con Uncharted, una saga avventurosa che di fatto è un miscuglio fra Indiana Jones e Tomb Raider e che, di nuovo, non è diventata famosa per la sua originalità, ma per il suo essere “il meglio possibile in quel campo”.
Da questo punto vista, io credo che si farebbe un torto a giudicare The Last of Us (la serie) sulla base del suo raccontare e mettere in scena situazioni diverse da tutto ciò che abbiamo visto prima, semplicemente perché non è mai stato quello il suo intento.
E se è vero che nel passaggio da gioco a serie tv si perde il valore epocale dello slancio verso la narrazione cinematografica (che effettivamente poteva suonare “originale” su Playstation), trovo che abbia molto più senso chiedersi se The Last of Us sia stata o meno una serie valida, in sé e per sé, se è stata capace di creare le emozioni che voleva creare quando voleva crearle, se è stata capace di piantarci in testa immagini, parole e concetti abbastanza forti da scavare un solco nel nostro cervello.
Altrimenti è come lamentarsi con Gigi Buffon perché in vita sua non ha segnato abbastanza gol: grazie tante, è un portiere.
Ecco, da questo punto di vista, The Last of Us non solo mi sembra una serie eccezionale, ma anche una serie che, pur senza rivoluzionare niente, pone un nuovo paradigma per questo genere di storie, alza l’asticella di ciò che pretendiamo da queste serie tv e dalle persone che le producono, le scrivono, le dirigono e le intepretano.
E naturalmente, segna una svolta effettivamente epocale nel mondo finora deludente delle trasposizioni da videogioco a cinema/televisione. Ma questo è un argomento ancora più grosso di cui magari parliamo in altra sede (e ce l’ho anche la sede: domani, 15 marzo, alle 18:00 mi trovate in diretta con gli amici di Longtake sul loro canale youtube, per parlare proprio di questa tematica)
A conti fatti, e pur considerando una messa in scena di altissimo livello, calibratissima sia per quanto riguarda la costruzione dell’immagine sia della colonna sonora, The Last of Us vive soprattutto di scrittura e interpretazioni.
Abbiamo già parlato in vario modo della capacità della serie di costruire pezzo per pezzo il rapporto fra Ellie e Joel, e questo episodio rappresenta il coronamento di quel lavoro.
Non c’è un solo elemento di questa serie, una sola parola, inquadratura o espressione, che non sia perfettamente funzionale alla costruzione di quel rapporto e di quelle psicologie.
Non c’è nulla di sprecato o sbrodolato, è tutto preciso, fecondo, e soprattutto ineluttabile.
Pensate a come, nel finale, Joel mostra di poter parlare liberamente della figlia morta, o di come arriva a chiedere qualche battuta stupida del libricino che Ellie porta sempre con sé. Sono tutti piccoli indizi di un lungo percorso che è stato compiuto e che ha permesso la nascita di un’amicizia vera, di un amore puro (amore, naturalmente, non nel senso romantico del termine).
È da questi tasselli, piazzati con cura e precisione nel corso di nove episodi, che arriviamo a un finale che è tanto forte quando, per l’appunto, inevitabile, perché nel momento in cui veniamo a sapere che Ellie dovrà morire per permettere all’umanità di sopravvivere, ciò che abbiamo visto negli episodi precedenti ci porta verso un’unica conclusione possibile.
La scena in cui Joel si trasforma in Terminator e ammazza tutti pur di salvare Ellie, una scena in cui la carneficina è accompagnata da una colonna sonora molto drammatica che smorza il rumore degli spari, è la conclusione necessaria del percorso di un uomo che, all’inizio, non avrebbe avuto alcun problema a lasciar morire la merce che si stava portando appresso, e che alla fine è disposto a sacrificare letteralmente tutta l’umanità per proteggere la ragazza che gli ha permesso (ammissione sua durante questo stesso episodio) di emergere da un pozzo apparentemente senza fondo.
La serie però ci pone una domanda. Diamo per certo che quello che abbiamo visto e conosciuto di Joel porta inevitabilmente verso questo finale, verso la protezione di ciò che Joel ritiene suo (non Ellie, ma i suoi sentimenti per lei, il diritto a non subire un’altra volta la perdita di una “figlia”). Ma la domanda è: ha fatto bene?
La risposta a questa domanda potrebbe sembrare solo relativa a questioni filosofiche di carattere generale: salvare l’umanità o salvare solo una persona? Ed è giusto salvare l’umanità se per farlo dobbiamo compiere un atto viscido e immorale? E se lo facciamo, cosa resta di noi, “the last of us?”
Ma non è solo questo, perché quella domanda non riguarda solo l’umanità, ma proprio Ellie e Joel. Quando risponde alle obiezioni di Marlene sostenendo che uccidere Ellie senza dirle niente è sbagliato, Joel sta usando formule che abbiamo già visto in altre situazioni simili in film e serie, il concetto del “non possiamo rinunciare così tanto ai nostri valori in nome del bene comune, che senza quei valori non esisterebbe più”. Il problema è che Marlene risponde che Ellie vorrebbe esattamente quello, vorrebbe sacrificarsi, e noi sappiamo al cento per cento che è proprio così.
Per tutta la stagione, Ellie è stato il personaggio diretto verso l’esterno, verso gli altri. Ha sempre coltivato un certo ottimismo, è sempre stata pronta a fare amicizia, a mettersi in pericolo per proteggere persone diverse da sé. Joel no. Joel ha protetto prima se stesso e poi Ellie, sapendo che proteggere lei avrebbe protetto anche lui, la sua sanità mentale.
Nel momento in cui Joel sceglie di ammazzare tutti e portarsi via la ragazza, e soprattutto nel momento in cui decide di mentirle per non farla sentire in colpa (e per mascherare i propri crimini e preservare il rapporto con lei), vediamo contemporaneamente una enorme prova d’amore e una manifestazione di totale egoismo.
Nell’ultima scena, che era memorabile nel gioco ed è memorabile nella serie, Joel di fatto distrugge il rapporto con Ellie attraverso la menzogna, dopo aver fatto di tutto, strage di innocenti compresa, per proteggere quello stesso rapporto.
Joel è il buono della serie, ma ora è anche il cattivo, perché condanna l’umanità e perché mente all’unica persona che ama e che lo ama disperatamente (“andrò dovunque andrai tu”).
Un dualismo strappacuore che resterà uno temi centrali anche nella prossima stagione, con conseguenze pure più clamorose.
In questa impalcatura narrativa, che ci lascia con un season finale molto energico, muscolare, con lieto fine, ma contemporaneamente anche drammatico, amaro, e con finale oscuro, bisogna lasciare uno spazio specifico alla celebrazione di Pedro Pascal e Bella Ramsey.
C’erano state, e ci sono tuttora, polemiche sulla scelta dei due, o meglio di Bella Ramsey, molto diversa dall’immagine della Ellie del gioco.
E per parte mia, rifuggendo con forza e senza mezzi termini certe derive volgari e irrispettose viste sui social, trovavo che la scelta di un volto così diverso facesse effettivamente perdere una sfumatura particolare del gioco, cioè l’idea della distruzione sistematica della fanciullina da teen drama, che in qualunque altra serie sarebbe la reginetta del ballo (cosa che Bella Ramsey non sarebbe), e che in The Last of Us è costretta a sputare sangue per sopravvivere.
Ma al netto di questa sfumatura effettivamente marginale, il lavoro fatto dai due protagonisti è clamoroso. E se Pedro Pascal è comunque costretto in un ruolo abbastanza granitico, non tanto nella psicologia (che abbiamo visto cambiare molto) quando in una certa praticità militare di gesti ed espressioni, è proprio Bella Ramsey a portarsi a casa gli applausi più sinceri.
Quello che serviva a questa Ellie – una ragazza che ha subito e subisce traumi pazzeschi, ma al contempo lotta per conservare un carattere oscillante fra il brioso e il sarcastico – era un range molto vasto di emozioni, espressioni, reazioni, in uno spettro molto articolato e, spesso, repentinamente altalenante.
Bella Ramsey riesce a fornire tutto questo e anche di più, non c’è un momento in cui non sia clamorosamente credibile, in questo trovando effettivamente un potenziamento rispetto a un videogioco che, sì, era lo stato dell’arte delle espressioni facciali nel 2013, ma non poteva raggiungere un livello così elevato.
Nell’episodio finale, che ci mostra anche la nascita di Ellie e della sua immunità, insieme a una promessa di protezione di parte di Marlene che verrà poi disattesa trasformando anche lei in una mentitrice, a colpirci con forza dolorosa è proprio il risveglio di Ellie dopo l’anestesia. La ragazza percepisce che qualcosa non torna, nel racconto di Joel, percepisce che qualcosa si è rotto, e semplicemente non è più la persona che era prima.
Gli ultimi minuti della stagione sono terribili proprio perché percepiamo che il rapporto per la cui salvaguardia è stata spesa tanta fatica, è irrimediabilmente perduto, e il primo piano finale di Ellie (famosissimo anche nel gioco) trasmette un pauroso senso di smarrimento, di perdita, e insieme di abbandono a una verità che puzza, ma a cui non può che aggrapparsi come può.
Ellie ha passato tutto il viaggio a cercare un senso a ciò che le è accaduto, a dare una forma digeribile a traumi altrimenti letali. L’unica cosa che le importava era fare qualcosa della sua vita e spogliarsi del senso di colpa per essere l’unica in grado di sopravvivere alla pandemia fungina.
Quello che vediamo negli ultimi minuti, dunque, è la distruzione di un sogno, la fine di ogni speranza di redenzione, e il volto di Bella Ramsey ci restituisce tutto questo con spietata precisione.
Naturalmente, il fatto che quella sconfitta senza appello sia stata causata dall’unica persona che Ellie considera vicina, dall’uomo che si è scelta come padre e mentore, ci dà il senso della portata gigantesca di una serie gigantesca, e mi verrebbe da dire che attendo con ansia la seconda stagione, contando sul fatto che molti e molte di voi la pensino allo stesso modo.
Però ecco, considerando che un po’ di noi sa cosa succederà, vi lascio con un piccolo monito: fate attenzione a quello che desiderate.
PS Non so perché non mi sia riuscito di inserirlo nel corpo dell’articolo, ma fa niente, lo aggiungo qui: l’attrice che interpreta la madre di Ellie è Ashley Johnson, che qualcuno di voi ricorderà come al piccola Chrissy Seaver di Genitori in Blue Jeans (più tante altre cose) ma che è soprattutto l’attrice che doppia Ellie nel videogioco di The Last of Us. Effettivamente, per certi versi, è proprio sua madre.
PPS Visto che tra voi c’è sicuramente tanta gente che non gioca ai videogiochi e magari li schifa pure, se avete visto e apprezzato questo finale pensate a cosa significò, all’epoca, essere Joel, essere costretti a premere in prima persona il grilletto di quella carneficina.
Ragionateci per bene, convertitevi, e comprate una console.