Django – Sky/NOW: una grande produzione, ma anche un po’ di confusione di Marco Villa
Django è un western stratificato, che cerca di costruire più mondi, ma che rischia di implodere sotto il peso della complessità
Alla fine dei primi due episodi di Django, si fatica ad avere un’impressione chiara di quello che si è visto. Di sicuro siamo stati catapultati in un mondo, ma la sensazione è che, in quel mondo, tutto sia semplicemente troppo.
Creata da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli (Gomorra), Django è ispirata al film del 1966 di Sergio Corbucci ed è una co-produzione Sky-Canal +, disponibile in Italia su Sky Atlantic e NOW. Si parla di western, in particolare di una fase complicata come quella che segue la fine della Guerra di Secessione statunitense. Il Nord ha vinto, la schiavitù è stata abolita, ma le cose non sono così semplici: in tanti stati del Sud, la segregazione continua e gli afroamericani se la passano malissimo.
Non a New Babylon, però, città fondata dall’ex schiavo John Ellis (Nicholas Pinnock), dove tutti sono ben accetti e nessuno è discriminato: un centro che non è visto di buon occhio all’esterno, con grande consapevolezza degli abitanti, che non a caso si sono battezzati come la nuova Babilonia. Ecco, l’esterno: fuori c’è la città di Elmdale, ad esempio, dove a comandare è una signora chiamata Elizabeth (Noomi Rapace), che si considera diretta portavoce di Dio, vuole ripulire il mondo dal peccato e, già che c’è, pure dagli ex schiavi, che lei considera emanazione del demonio.
Lo scontro tra le città e i loro due leader non è l’unica linea di conflitto, ci mancherebbe. Anche perché non ho ancora citato quello Django che dà il nome alla serie: interpretato da Matthias Schoenaerts, trattasi del tipico pistolero itinerante, che si è visto la famiglia trucidata e ha perso la testa. Anni dopo (e una guerra dopo), si rimette alla ricerca della figlia Sarah (Lisa Vicari). E dove la trova? Ma a New Babylon.
A questo aggiungete che proprio Sarah è la bianchissima promessa sposa di John Ellis, che i figli di lui vedono il matrimonio come un tradimento, ma aggiungete anche il fatto che vicino a New Babylon viene trovato un giacimento di petrolio e che Ellis e la signora Elizabeth erano amichetti d’infanzia e poi chissà cosa è successo.
Tanta, tanta, tanta roba. Troppa? Eh, il dubbio c’è, perché nei primi due episodi si fatica a essere catturati dai singoli filoni narrativi, ognuno dei quali mostra fin da subito tutte le proprie complessità. Complessità vuol dire ricchezza, ma la sensazione è che la stratificazione non sia stata dosata a dovere. In questo senso, è sufficiente pensare alla caratterizzazione di New Babylon, una città-mondo che ha bisogno di essere presentata e spiegata a dovere, ma che invece diventa nell’arco di pochi minuti un semplice sfondo per le vicende, ridotta al rango di una Las Vegas egualitaria, nella quale si fatica a trovare i tratti dell’utopia.
E dove non c’è confusione, c’è esagerazione: accade con il personaggio di Noomi Rapace, fin da subito vicinissimo alla macchietta, con tanto di bagni freddi notturni per tentare di placare i propri istinti sessuali; accade anche e soprattutto con il rapporto padre-figlia, con entrambi i personaggi sempre sopra le righe e un primo confronto tra i due che non può non avere toni enfatici.
Certo, poi c’è una sparatoria che coinvolge decine di comparse e per la quale è giusto riconoscere i meriti a Francesca Comencini, che dirige i primi due episodi, così come tutto l’impianto scenografico di Paki Meduri è da applausi. Perché Django è una serie grossa, è evidente da ogni scena e dall’ambizione sottesa all’intero progetto. La grandezza degli obiettivi, però, si è un po’ mangiata la giusta misura, almeno negli episodi iniziali.
Perché guardare Django: perché la produzione è di livello
Perché mollare Django: perché i primi due episodi sono confusi e fuori fuoco