11 Gennaio 2023

Copenhagen Cowboy – Netflix: il male, la vendetta, la lentezza e Winding Refn di Marco Villa

Quindici anni fa avremmo gridato al miracolo per Copenhagen Cowboy: oggi dobbiamo evitare di sottovalutarla

Pilot

Se ci pensate bene, uno dei tratti distintivi delle serie che hanno fatto storia una ventina d’anni fa era il loro ritmo: lento, a tratti lentissimo. The Sopranos, The Wire, Breaking Bad, Mad Men, giusto per nominare le fantastiche quattro. Lentezza che si contrapponeva al ritmo ben più alto e spesso obbligato delle serie generaliste, che dovevano macinare un omicidio, una patologia o un’altra faccenda x all’interno di ogni singola puntata. Le reti via cavo imposero il cambio di paradigma e di colpo lentezza divenne sinonimo di qualità, nel senso che le serie che non sottostavano ai ritmi da generalista erano quelle d’autore, quelle che facevano storia a sé e che, come detto, fecero la storia in senso generale. Sono passati vent’anni, quella sbornia da lentezza l’abbiamo smaltita, in compenso siamo passati a una nausea per eccesso di proposta, che ci ha spinto nella direzione opposta, quella che ci porta a velocizzare le serie per poterne vedere il più possibile. Se fossi uno studente o un ricercatore universitario mi ci butterei a pesce su questa faccenda, invece mi limito a riflettere su quanto avremmo gridato al miracolo se Copenhagen Cowboy fosse uscita 15 anni fa e su quanto dobbiamo stare attenti a non sottovalutarla oggi.

Copenhagen Cowboy è una serie d’autore, su questo non ci sono dubbi: la firma Nicholas Winding Refn, wonder boy del cinema europeo che negli ultimi anni ha perso un po’ di wonder e da tempo non è più boy. E la firma per Netflix, che in questo modo mette una crocetta sulla casella “serie hipster” per il 2023. Refn è regista con un’identità visiva molto forte: se avete visto anche solo i suoi film più recenti e popolari (Drive, Only God Forgives e The Neon Demon), avete chiarissime in testa quelle scene popolate da neon e luci fluo, quelle inquadrature studiatissime e iper-raffinate. Le stesse che aveva già messo in Too Old To Die Young, serie di Prime Video molto lenta e molto bella visivamente, che però non ha lasciato il segno. Complice il cambio di piattaforma, Copenhagen Cowboy può avere un destino diverso, anche perché – nei limiti del possibile – è un filo più pop.

La storia è semplice e strana allo stesso tempo. Il personaggio principale è Miu (Angela Bundalovic), una ragazza minuta con dei poteri sovrannaturali: è una guaritrice? È una sciamana? È una persona che si approfitta della credulità altrui? Non è dato saperlo, quel che sappiamo è che all’inizio della serie viene chiamata da una donna che vuole restare incinta. Non è una donna qualsiasi: suo fratello è un criminale di origine albanese, che gestisce un bordello con metodi estremamente violenti; suo marito viene rappresentato come una sorta di subumano, talmente abietto da non avere nemmeno diritto di parola, dal momento che, ogni volta che apre bocca, emette solo grugniti da maiale. Miu entra in questo mondo oscurissimo e ne esce solo al termine della seconda puntata, quando inizia la sua opera di vendetta nei confronti delle varie incarnazioni del male.

Copenhagen Cowboy è la storia di una vendicatrice solitaria, che affronta mondi criminali sempre diversi, come se fossero livelli di un videogioco, in cui efferatezza e crudeltà diventano sempre più forti. Al contrario, Miu osserva tutto con estremo distacco, come se appartenesse a un altro mondo, una sorta di angelo vendicatore che punisce chi non rispetta gli altri esseri umani. 

Tutto questo avviene con fantastici e inesorabili carrelli circolari, che donano movimento a una serie invece molto statica dal punto di vista narrativo e di dialoghi. Come si diceva in apertura, tutto è molto lento, come se gli avvenimenti su schermo rischiassero di disturbare la perfezione visiva. Una scelta che può essere irritante e di fatto lo è per gran parte del primo episodio. Poi però, verso il finale, inizia una sorta di mini-videoclip: su un tappeto di pad, si innesta una chitarra che inizialmente sembra voler richiamare il tema di Twin Peaks di Badalamenti. Sullo schermo, tutte le ragazze del bordello in attesa di essere chiamate da un cliente: una sensazione di sospensione e angoscia assolute, che viene rotta dalla fuga di una delle ragazze, mentre le chitarre elettriche si liberano e la ritmica sale (pezzo clamoroso di Cliff Martinez, autore della colonna sonora).

Per quanto mi riguarda, è il momento che ha cambiato il mio rapporto con Copenhagen Cowboy. Ok, è lenta, lentissima, pretenziosa, autoriferita. Ma quella sequenza è un capolavoro, mi ha rimesso al mondo e mi ha messo in connessione con la serie. Serie che prosegue con l’approdo di Miu in un’altra centrale del male, che come la precedente vede delle donne nelle posizioni peggiori, vessate e sottomesse in ogni modo.

Come per Too Old To Die Young, Copenhagen Cowboy è una serie da dentro o fuori: estrema, sempre sbilanciata verso la parte visiva rispetto a quella narrativa, ma con qualche appiglio in più. A me è bastata una sequenza per trovare il gancio che mi serviva, magari anche per voi funziona così. In ogni caso, una chance la merita.

Perché guardare Copenhagen Cowboy: perché possiamo già dire che nel 2023 sarà tra le cose girate meglio

Perché mollare Copenhagen Cowboy: perché volete storie forti



CORRELATI