The Recruit su Netflix – Piccole spie crescono di Diego Castelli
The Recruit arriva dal creatore di The Rookie e ci racconta di un giovanotto alle prese con le prime, faticose settimane alla CIA
Siamo agli sgoccioli del 2022 e restano poche occasioni per aggiungere qualche tassello alla nostra classifica annuale, che abbiamo abbondantemente commentato sui nostri podcast Salta Intro e Salta Intro+.
Bisogna allora dosare bene gli spazi, per lasciarli alle ultime arrivate che meritano sinceri elogi o, magari, sentite scoppole.
Oggi ci trattiamo bene e parliamo di una bella scoperta, ovvero The Recruit.
Creata da Alexi Hawley, già fra i produttori di Castle e poi creatore di The Rookie, The Recruit è disponibile su Netflix e con i suoi otto episodi facili facili è per me una delle migliori sorprese di questo dicembre. Sorpresa nel vero senso della parola, perché non avevo idea di cosa fosse, nessuno l’aspettava con particolare ansia, e poi guarda qui come ci siamo divertiti.
Nel caso vi foste chiesti se esiste una parentela fra Alexi Hawley e Noah Hawley, il creatore della versione seriale di Fargo, beh, altroché se esiste, sono gemelli!
Come detto, Alexi ha lavorato a diverse serie (anche The Following e State of Affairs) prima di creare The Rookie, lo show con Nathan Fillion che, se non proprio gemello, è per lo meno zio, o cugino grande di The Recruit.
In The Rookie avevamo un protagonista non più giovanissimo che decideva di entrare in polizia, diventando quindi una recluta fuori tempo massimo la cui condizione particolare diventava la principale risorsa per l’originalità (e anche la comicità) della serie.
In The Recruit non c’è lo stesso problema di anzianità, ma seguiamo comunque i primi passi nella CIA di un giovane avvocato (Owen Hendricks, interpretato da Noah Centineo) che, pur essendo appunto un legale e non una spia vera e propria, finisce incastrato in un gioco di segreti, agenti sul campo e intrighi incrociati, da mettere a durissima prova le sue evidenti ma ancora acerbe capacità.
Di per sé, il concetto di giovane spia (o simil-tale) che deve crescere all’interno dell’agenzia non ci fa alzare chissà quali sopraccigli.
A fare la differenza, però, sono lo stile e il tono con cui Hawley ha scelto di raccontare la vicenda, ma anche e forse soprattutto il modo con cui ha deciso di raccontare i personaggi che, per tradizione hollywoodiana, dovremmo considerare i “buoni”.
Il primo elemento di originalità, quello che si vede fin dal pilot, è proprio Owen.
Principale simbolo di un tono sempre in bilico fra commedia, suspense, romance e drama, Owen non è né lo scalcagnato combinaguai che potremmo vedere in uno show demenziale, né l’agente tutto d’un pezzo e semi-indistruttibile che abbiamo visto in tanti film e serie più o meno action.
Al contrario (o meglio, nel mezzo), Owen è effettivamente un ragazzo talentuoso, uno che potrebbe diventare un maestro nel suo campo, solo che non lo è ancora.
Questo significa che può avere intuizioni efficaci e che riesce a sgusciare dalle situazioni più intricate, ma non significa che sappia evitarle, né che sia immune da errori che, anzi, commette in continuazione.
Ed è proprio questa sua fallibilità, questa intrinseca fragilità, che rende Owen un eroe difettoso con cui è facile empatizzare subito, e che trasmette un senso di realismo probabilmente superiore a quello che la serie porta effettivamente con sé (non abbiamo visto spesso un protagonista colpito da violenti attacchi d’ansia e di panico, a meno di personaggi espressamente caratterizzati per quel motivo).
Ma le novità non finiscono qui, perché se Owen è un protagonista in qualche modo “a metà strada”, tutto il resto della serie segue questa stessa impostazione.
Come detto, siamo di fronte a uno show che rifugge categorizzazioni troppo nette di genere: si ride spesso e si ride di gusto, ma questo non significa che le scene più dichiaratamente spy non lo siano davvero, con tutta l’orchestrazione dei movimenti e la suspense che pretendiamo da quel genere specifico.
E lo stesso si può dire delle linee romantiche, che forse peccano un pochino di infantilismo (rispetto al resto della serie), ma che comunque si fanno sentire in quanto vere, precise, plausibili (nello specifico la tensione nel triangolo composto da Owen, l’amica ed ex fidanzata Hannah, e la pericolosa ma affascinante Max).
Non abbiamo finito.
In aggiunta a questo tono ibrido, sempre ben gestito e capace di dare alla serie una freschezza e un ritmo che altre si sognano (anche se devo sottolineare la nota di mio padre, in crisi perché “non capisce se fa ridere o no”), c’è anche una rappresentazione assai particolare della stessa CIA.
A onor del vero, sia sul grande che sul piccolo schermo la CIA (che è l’agenzia di spionaggio che si occupa degli affari degli Stati Uniti all’estero) è sempre stata raccontata con toni più cupi e ambigui rispetto all’FBI. Come se una certa dose di purezza casalinga (inseguire un serial killer è un’attività priva di compromessi e ambiguità) si perdesse automaticamente quando c’è da trafficare con le spie russe o cinesi, o coi talebani.
Allo stesso tempo, forse mai avevamo visto una CIA in cui tutti, ma proprio tutti i membri fanno per primo il proprio interesse, sapendo che tutti gli altri faranno il loro.
Più che il racconto degli americani contro i cattivoni esteri, The Recruit si fa notare perché ci racconta le stratificazioni e incrostazioni maniacali di un vero e proprio elefante burocratico, in cui le amicizie segrete contano più dei protocolli, in cui la soluzione a enigmi importantissimi è nascosta nella polvere di faldoni persi in qualche archivio, e in cui la sicurezza nazionale viene molto, molto dopo la gloria personale del grande capo come del più piccolo passacarte.
Qui sta in fondo la natura più satirica di The Recruit, una serie in cui vediamo con chiarezza l’abilità dei personaggi sul campo, senza mai poterci fidare di loro, al punto che, al termine degli otto episodi, l’impressione che si ha è quella di un’agenzia, ma anche una nazione, ma forse anche un intero modo di pensare, che vacilla paurosamente sotto il peso di una semplice, amara verità, cioè la miseria umana che non risparmia nessuno, nemmeno i grandi difensori di un Paese che ama pensare a se stesso come il migliore del mondo.
Forse, allora, Owen è il nostro eroe proprio per questo, perché le sue inefficienze sul campo sono meno importanti di una bussola morale che sembra ancora più o meno salda, e che gli eventi della serie puntano a rompere e deformare.
A questo punto, dopo aver celebrato l’originalità di The Recruit, bisogna pure dire che effettivamente esiste già una serie che le assomiglia molto, ovvero Slow Horses di Apple Tv+.
Lì siamo in Inghilterra, ma c’è lo stesso discorso sulle fragilità dei servizi segreti e sull’egoismo a volte caricaturale delle persone che li compongono.
La differenza la fanno poi piccoli e grandi dettagli: The Recruit è effettivamente più americana, e quindi più svelta, certamente più action, un pochino più patinata, a partire da un protagonista belloccio e fisicato. Slow Horses è puramente british, più lenta e sporca, ma anche più strana e con un paio di personaggi (a partire naturalmente dal Jackson Lamb di Gary Oldman) portatori di un carisma inarrivabile.
Ma non era mia intenzione fare un vero paragone. Mi sembra invece interessante notare, come fenomeno complessivo, questa rilettura più umana e fallibile dei servizi segreti, con un approccio che magari non ci farà essere molto fiduciosi sulle prossime sfide della realtà politica e militare mondiale, ma almeno ci restituisce racconti che improvvisamente, e forse del tutto artificiosamente, ci suonano più veri, attuali e aggiornati rispetto al passato.
Consigliata.
Perché seguire The Recruit: per la rilettura divertente e appassionante di un genere che merita una svecchiata.
Perché mollare The Recruit: se a voi, come al mio papà, non piacciono le serie in cui non si capisce se devi ridere o meno.