Tulsa King. Di Taylor Sheridan. Con Sylvester Stallone. Su Paramount+. di Diego Castelli
Spero che gli amici a Paramount+ non se la prendano a male se inizio questa recensione con una piccola bacchettata sulle mani.
Sì perché tu non puoi avere una piattaforma proprietaria disponibile anche in Italia, dove escono tutte le tue nuove serie senza intermediazioni, per poi dirci che Tulsa King, uno dei progetti più di richiamo di questi mesi, non esce in contemporanea anche nel nostro paese, lasciandoci con un generico “prossimamente” (magari tornerò qui ad aggiornare l’articolo quando ci sarà una data).
Dai, non si fa.
Fatta questa premessa tignosa, possiamo ora passare a dirci due cose sulla nuova serie di Taylor Sheridan, già nume tutelare di Yellowstone, 1883 e Mayor of Kingstown, che per il suo nuovo progetto ha scelto Sylvester Stallone, alla sua prima esperienza come protagonista di una serie tv dopo una carriera che non credo di dover riassumere.
Insomma, mica pizza e fichi.
La storia è quella di Dwight Manfredi (Stallone), un ex capo della mafia newyorkese che si è fatto venticinque anni di galera senza mai fare la spia sui suoi “colleghi”.
Uscito di prigione, Dwight vorrebbe riavere il suo posto di prestigio nella grande metropoli, ma il suo vecchio boss, nel frattempo invecchiato, indebolito, e incalzato dai parenti più giovani, non è più in grado di offrirglielo: per questo gli propone/impone di andare a Tulsa, sperduta città dell’Oklahoma dove non c’è sostanzialmente niente, ma che proprio per questo rappresenta un’opportunità di sviluppo e di nuovo business.
Convinto più con le cattive che con le buone, Dwight accetta il trasferimento, ma non ha intenzione di perdersi in rancori e frustrazioni: una volta arrivato a Tulsa, comincia subito a lavorare per mettere in piedi un nuovo, piccolo impero, con l’obiettivo di prendersi la rivincita su chi lo considerava troppo vecchio per contare ancora qualcosa.
Questa la trama del primo episodio, co-scritto da Taylor Sheridan e Terence Winter, a suo tempo già creatore di Boardwalk Empire (giusto per aggiungere un’altra firma interessante).
Ed è un pilot eccezionalmente preciso e lineare, dritto dritto, più delle precedenti serie di Sheridan, a riprova che Tulsa King è probabilmente un po’ diversa da come ce l’aspettavamo.
Nel sapere che il creatore di Yellowstone stava creando una serie con Stallone, infatti, eravamo stati portati a pensare allo stesso approccio: un drama intenso, maschio, magari anche cattivo e violento, in cui l’ex Rambo potesse spendere il suo carisma in una sorta di Padrino riveduto e corretto, anche al netto di una sfumatura inevitabilmente più leggera che il concept già portava con sé (il vecchio boss mandato in esilio nel paesello).
Beh, non è andata esattamente così, e se non è immediatamente un bene, non è nemmeno detto che sia un male.
Non arrivo a dire che Tulsa King sia una comedy, però a conti fatti questo pilot è sembrato molto più leggero del previsto.
Nel suo percorso verso una nuova vita e un nuovo successo, Dwight finisce in una provincia sperduta dove di crimine ce n’è poco e sono tutti tendenzialmente rilassati e pacifici. Nel suo incontro/scontro con la nuova realtà, Dwight si propone di creare una nuova rete di piccoli e grandi traffici, che per essere messa in piedi prevede un certosino lavoro di bastone e carota, per convincere o costringere gli abitanti della città, ognuno portatore di un certo grado di opportunità e di difficoltà, a entrare nei suoi loschi giri o quanto meno a non ostacolarli, anche se ovviamente, non è questo grande spoiler, dei problemi grossi arriveranno comunque.
Se siete videogiocatori/trici, sembra di guardare una capitolo di GTA, con il protagonista costretto a partire dal basso e (ri)costruirsi una carriera criminale che parta dal pizzo a un negozio di marijuana, per arrivare ai più alti livelli del potere cittadino.
E qui secondo me sta il pregio migliore della sceneggiatura, una specie di progressione metodica del “lavoro” di Dwight, che riesce a essere furbescamente interessante – quasi come se stessimo guardando un tutorial so come diventare dei boss – ma anche a delineare le caratteristiche principali del personaggio, che dopo quaranta minuti ci appare inequivocabilmente come un uomo tutto d’un pezzo, intelligente, roccioso e, soprattutto, pieno di risorse, nonostante i venticinque anni di inattività.
Ma appunto, tutta questa progressione ci appare sotto una luce leggera. Che si tratti di tirare cazzottoni a qualche contadinotto riottoso, o di spargere qualche perla di saggezza da anziano carcerato, Dwight Manfredi ci offre un intrattenimento molto facile, molto immediato, verrebbe da dire quasi coatto, allontanandosi almeno in parte da certe ombrosità e complicazioni viste in lavori precedenti di Sheridan, per rivolgersi a un pubblico probabilmente un po’ diverso.
In questo senso, Tulsa King è palesemente una serie più anziana di altre, sia in termini stilistici, come abbiamo appena visto, ma anche dal punto di vista tematico: l’intera storia gira intorno a un vecchio che, oltre a essere vecchio, è rimasto fuori da qualunque giro per un quarto di secolo, potenziando ulteriormente la sua anzianità. Dwight è uno che non può che storcere il naso di fronte ai ragazzi con i caschi della realtà virtuale, alla gente che non chiama un taxi preferendo Uber, ai negozi che vendono marijuana legale rovinando le care vecchie tradizioni di una volta.
Vale la pena, a questo punto, fare una considerazione più generale su Taylor Sheridan, che per certi versi, nel panorama televisivo attuale, è l’anti-Ryan Murphy.
Da sempre, Sheridan dedica la sua creatività a film e serie che hanno poco o nessun interesse per i grandi temi sociali che attraverso gran parte della serialità contemporanea. Niente wokeness, trame maschie, protagonisti maschi che fanno gli uomini d’altri tempi e spiccano sopra sceneggiature non banali, ma non per questo criptiche: i concept di Taylor Sheridan non sono mai troppo complicati, proprio per lasciargli la possibilità di concentrarsi sui personaggi e il loro carisma.
Da questo punto di vista, Tulsa King sembra quasi un’autoparodia: prendere un vecchio boss, metterlo di fronte a un mondo completamente cambiato, e decidere di affidare la parte a una delle icone più riconoscibili di un cinema che non c’è più (o che non è più così rilevante) com’era il cinema muscolare e reaganiano degli anni Ottanta e primi Novanta, significa avere ben chiaro il fatto di stare offrendo una specie di bigino di genere, un distillato consapevolmente didascalico (e per questo quasi umoristico) di alcune delle tue caratteristiche autoriali più riconosciute.
Se dunque l’intera operazione Tulsa King mi sembra estremamente consapevole e “voluta”, in ogni sua componente e in termini di approccio, sarebbe da decidere come la dobbiamo giudicare.
Dipende.
Non ho alcun dubbio che a un discreta quota di spettatori Tulsa King possa apparire irrimediabilmente vecchia. Ma proprio anziana, vetusta, molto compassata, come proveniente da un’altra epoca non necessariamente meritevole di nostalgia.
E perfino molti fan di Taylor Sheridan potrebbero trovarlo troppo leggero e poco incisivo.
D’altra parte, però, Tulsa King ha un che di comodo, di rassicurante. La fluidità della sua narrazione. Il carisma tuttora innegabile di uno Stallone settantaseienne e gonfio, ma ancora portatore di un peso specifico non indifferente, compresa una voce narrante che fa vibrare lo schermo. La capacità di costruire con metodo un’impalcatura narrativa pienamente comprensibile e in qualche modo familiare, ma senza perdere la possibilità di inserire qualche piccola deviazione che eviti il rischio-stucchevolezza (lo si vede soprattutto sul finale del pilot, dove una lunga scena che pare pucciata nel patriarcato più dozzinale si riscatta con un paio di twist che danno spessore alla vicenda).
Ho i miei dubbi sul fatto che Tulsa King possa diventare una nuova Yellowstone. Pubblici diversi, diverso grado di compulsione morbosa, e meno capacità, almeno per il momento, di costruire quelle trame così tese da obbligarti a bramare l’episodio successivo.
Però una valutazione definitiva si potrà dare solo alla fine, e lo dico per sottolineare il fatto che sì, la prima stagione me la guardo fino in fondo, perché anche se non diventasse un grande romanzone di ampio respiro, a me questo Stallone anziano ma forte, esiliato ma cocciuto, scatena un affetto anzianotto che non posso né voglio negare.
PS
Non sarebbe assurdo fare una qualche riflessione di tipo etico, perché non ricordo un esempio recente di delinquente “vero” trattato con così palese condiscendenza da una serie tv. Né passano inosservati i tentativi di Sheridan di bilanciare le sue azioni criminali con altrettanti slanci di hollywoodiano eroismo, tipo “sì, esigo il pizzo da un negozio, ma se vedo una donna maltrattata intervengo e volano sganassoni, quindi non è che sono così cattivo”.
Insomma, di nuovo il tema di una rappresentazione un po’ antica dell’orgoglioso maschio (italo)americano. Ma sarà il caso di vedere come si sviluppa la faccenda prima di trarre conclusioni su questo tema.
Perché seguire Tulsa King: per il carisma di Stallone, per una storia dritta, precisa, rassicurante, e per la consapevolezza che Taylor Sheridan non è mai un autore banale, anche quando lo sembra.
Perché mollare Tulsa King: perché è una serie di impostazione anziana per un pubblico palesemente anziano pure lui.