The Handmaid’s Tale 5 season finale – Donne in fuga di Diego Castelli
Si chiude uno dei capitoli migliori della serie, in attesa del gran finale
ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA QUINTA STAGIONE DI THE HANDMAID’S TALE
Stavolta bisogna proprio partire dalla fine. Da una scena che funziona come una specie di sigillo di tutta una stagione, se non di un’intera serie, anche se manca ancora un ultimo ciclo di episodi.
Al termine dell’ultimo episodio della quinta stagione di The Handmaid’s Tale, June e Serena si trovano una di fronte all’altra, entrambe in fuga, entrambe su un treno, entrambe con un bambino in grembo. Improvvisamente uguali, ironicamente identiche, a completare parte di un discorso molto lungo di cui si stanno cominciando a tirare definitivamente le fila.
Avevamo già parlato del finale della stagione 4, quella dove June uccideva Waterford in una scena che ci aveva fatto riflettere sul rapporto della protagonista con il Male e con quei classici processi di guarigione dal trauma di cui la serie scardinava alcuni assunti classici, specie in relazione alle figure femminili.
Ma avevamo parlato anche dei primi due episodi di questa stagione 5 (sempre disponibile su Tim Vision), in cui la gestione successiva, da parte di June, dei suoi atti violenti, unita agli altri sviluppi nel rapporto con Serena, suggerivano ulteriori riflessioni su una faida in cui i confini fra buoni e cattivi, inizialmente netti e precisi, cominciavano a farsi improvvisamente sfumati, per lo meno nella prospettiva dei singoli.
Ora che la quinta stagione è finita possiamo tirare un ulteriore bilancio, notando come alcuni concetti siano stati effettivamente sviluppati, mentre altri ancora se ne sono aggiunti.
Come detto, la stagione si chiude con June e Serena improvvisamente sullo stesso piano, appaiate “sul serio”, dopo un continuo saliscendi che le aveva viste avvicinarsi per poi allontanarsi, anche con un improvviso e cinico ribaltamento che per un po’ di tempo aveva trasformato June in una donna libera (per quanto sempre addolorata) e Serena in una quasi-ancella segregata e mortificata da quelli che dovevano esserle amici, ma che di fatto si ponevano come padroni.
Mi è capitato spesso di sbagliare almeno in parte le previsioni su The Handmaid’s Tale, a causa della capacità e volontà della serie di sparigliare spesso le carte, e magari, qualche volta, anche a causa della sua difficoltà a dare seguito preciso ad alcuni spunti, per paura che sennò finisce tutto subito.
In questo caso, per esempio, un inizio particolarmente cattivello di June poteva far pensare a un suo più deciso spostamento verso un’indole vendicativa non esattamente sana, che potesse proseguire la strada imboccata dall’omicidio di Waterford, per arrivare a nuovi livelli di efferatezza.
Così non è stato, ma non per pigrizia o errore, bensì per la scelta di mettere i personaggi, e nello specifico June e Serena, su una strada diversa, meno facile, che non cedesse alla tentazione di dar vita allo scontro totale fra le due che sembrava proprio nell’aria, ma che forse non serviva veramente per raccontare ciò che la serie voleva esprimere.
Perché diciamolo: al netto di tante altre cose che succedono e di cui varrebbe la pena di parlare, il cambiamento del rapporto fra June e Serena è il cuore di questa stagione.
E non è un cambiamento nato oggi: lo spostamento di June da ancella remissiva ad arcigna combattente per la sua famiglia è tema centrale fin dalla prima stagione, ma anche in Serena avevamo già visto diversi segni di cambiamento. D’altronde, era comunque una donna che viveva a Gilead, e prima o poi qualche problemino con i maschi al potere doveva saltar fuori.
Finora, però, il lento e accidentato avvicinamento non aveva prodotto esiti “definitivi”.
A cambiare tutto c’è, naturalmente, la gravidanza e il parto di Serena. Nell’episodio dedicato al suo travaglio, quello in cui June la aiuta a partorire e ad arrivare in ospedale, parte delle difese erette da entrambe nei confronti dell’altra vengono a cadere: per June, Serena non è più solo la moglie complice del suo stupratore, ma anche una madre vedova (per mano sua) lasciata al suo destino; per Serena, June non è più solo l’assassina del marito, ma anche una donna di cui ora capisce le difficoltà, e che ha aiutato lei e il suo bambino a sopravvivere.
Nemmeno quello è un momento definitivo, nel senso che June ribadisce che lei e Serena non sono certo amiche (e forse mai lo saranno), ma è sicuramente un’occasione di spostamento, l’attimo in cui lo scontro non è più fra Serena e June, ma torna a essere quello fra donne e uomini.
Perfino Luke, che resta personaggio positivo e alleato sincero della protagonista, in quel momento diventa un nemico: quando consegna Serena alle autorità, appena dopo il parto, vediamo attraverso gli occhi delle due donne l’errore di un uomo che non può capire la loro condizione, e agisce quindi con piena ferocia, senza spazio per un’empatia che invece June può provare perché biologicamente attrezzata per farlo.
Da lì in poi, l’avvicinamento fra June e Serena, che pure non si incontrano più fino al finale, prosegue spedito.
June perde progressivamente, passo dopo passo, lo status felice di donna libera in Canada, mentre Serena, neo-mamma senza marito, sperimenta sulla sua pelle gli elementi peggiori di Gilead, diventando un’ancella de facto e guadagnandosi inevitabilmente della simpatia da parte nostra, perché la sofferenza monda i peccati ed esige pietà.
Si arriva dunque a un finale perfetto. Un finale che aumenta la complessità della serie, appaiando due figure che in passato sono state completamente agli antipodi, ma senza per questo perdere credibilità: proprio il percorso accidentato delle due donne, le contraddizioni che hanno saputo esprimere, la “realtà” della loro psicologia, hanno giustificato un’ultima scena in cui le vediamo identiche, e in cui crediamo effettivamente che questo paragone si possa fare, che sia legittimo, perché la storia è stata lunga e piena di eventi, e giustifica un cambiamento parziale o totale di certe posizioni.
A riprova di questo fatto, il tema della complessità, dell’insorgenza di chiaroscuri, non vale solo per June e Serena, ma per tutta la serie, che con questa stagione ha acquisito uno spessore politico molto maggiore rispetto al passato, o quanto meno molto più calato nella realtà.
Se The Handmaid’s Tale era iniziata raccontando uno stato totalitario e malvagio, in cui la divisione fra buoni e cattivi era netta, precisa, inequivocabile, ora sono state introdotte delle sfumature che sembrano l’eco di tante situazioni reali che ci capita di incrociare nel nostro mondo, sui nostri giornali, nel nostro discorso collettivo.
Intendiamoci, Gilead resta Gilead, e su questo non ci piove.
Ma gli esempi di un’accresciuta complessità sono comunque molti.
Ci sono i canadesi che, a un certo punto, non ne possono più dei maledetti immigrati americani e protestano per fargli tornare a Gilead (la satira politica è quanto mai esplicita, con gli americani trattati come nella realtà gli americani trattano i messicani, e noi di polemiche sull’immigrazione sappiamo qualcosa…). Canadesi che poi, di fatto, diventano i cattivi finali, con le aggressioni a June (scena fortissima) e l’arresto di Luke.
C’è Lawrence, che per la prima volta spiega davvero la sua posizione, raccontando del suo tentativo, tecnicamente riuscito, di salvare l’umanità dalla sterilità, ma rammaricato di aver perso il controllo dello strumento usato per arrivarci (cioè il fondamentalismo religioso).
C’è Nick, che vorrebbe scappare da June, poi rinuncia in nome della sua famiglia di Gilead, poi forse ci ripensa di nuovo.
C’è Luke, che a metà stagione cede a una cattiveria rancorosa e alcune volte scivola in un istinto di protezione di June che va oltre l’amore e diventa possesso patriarcale, ma che alla fine resta comunque un bravo padre e marito che si sacrifica.
Ci sono perfino Janine e zia Lydia: la prima abbandona definitivamente il suo stato remissivo, decidendo di ribellarsi, e la seconda si stacca sempre di più, anche se quasi inconsciamente, dai dettami di Gilead, in nome dell’affetto proprio per Janine, le cui sofferenze nel corso degli anni hanno toccato perfino il suo vecchio cuore avvizzito.
Insomma, se in altre serie siamo abituati a vedere personaggi più granitici, che difficilmente cambiano in maniera evidente le loro posizioni reciproche, in The Handmaid’s Tale, probabilmente consci che già la seconda e terza stagione avevano mostrato una staticità pericolosa, si è deciso di premere sull’acceleratore e correre dei rischi.
E il risultato funziona. Partendo da un concept distopico e granitico, ai limiti della fantascienza, The Handmaid’s Tale ha saputo innervare i suoi personaggi e i suoi contesti di un realismo sempre maggiore, di una fluidità che, se non ha sconvolto alcuni pilastri della storia, ha comunque permesso ai personaggi di diventare persone “vere”, capaci di errori, di indecisioni, di confusione, di ripensamenti, come capita a tutti noi.
Un cambiamento che non è solo artistico e funzionale all’intrattenimento, ma che sembra coerente con una realtà (la nostra) particolarmente polarizzata e divisa in termini di discorso pubblico, e di cui si vuole sottolineare la natura stratificata e multiforme.
Un monito, insomma, a ricordare che c’è sempre un altro punto di vista, c’è sempre un altro lato della medaglia.
E forse il miglior simbolo di questa evoluzione è l’espressione di June alla fine, quel classico primo piano che è marchio di fabbrica della serie, e che questa volta non ci restituisce la solita June sofferente o incazzata nera, ma piuttosto una donna quasi divertita, capace di cogliere l’amara ironia di una situazione paradossale, ma che sceglie di accettare perché la vita è come una scatola di cioccolatini: quadrata, costosa, e probabilmente dannosa per la salute.
A questo punto, fare previsioni rischia di essere ancora più masochista del solito. L’impressione che abbiamo ora è che l’alleanza, se non l’amicizia, fra June e Serena debba consolidarsi ulteriormente, e lo scontro con Gilead sembra poter diventare qualcosa di più grosso. Non più solo il racconto di una donna, ma il racconto di tutte le donne, e la lotta per buttare giù un colosso malvagio che comincia a scricchiolare.
Ma chissà quali altre sorprese ci attendono, e chissà se anche una serie come The Handmaid’s Tale, finora votata alla sofferenza e agli schiaffi in faccia agli spettatori, potrà permettersi un lieto fine che sia coerente e giustificato, o se invece sarà “costretta” a lasciarci l’amaro in bocca fino in fondo, come medicina necessaria a imparare qualcosa.
Una cosa però mi sento di dirla: The Handmaid’s Tale sta diventando forse l’unico esempio di serie che, superando di molto i confini del libro da cui era tratta, riesce effettivamente a migliorare invece che peggiorare, o quanto meno a non andare in vacca. Quindi mi aspetto che l’ultima stagione, pensata e annunciata come tale, sia una bomba.
Non accetterò niente di meno.