21 Settembre 2022

The Handmaid’s Tale 5 – Il Male chiama il Male di Diego Castelli

Nuovi percorsi di senso per una serie che continua a ribaltarci lo stomaco (che è un complimento, per essere chiari)

On Air

ATTENZIONE! SPOILER SUI PRIMI DUE EPISODI DI THE HANDMAID’S TALE 5

Nella puntata dei Serial Moments di due giorni fa abbiamo già parlato in breve del ritorno di The Handmaid’s Tale, ma c’è un tema che merita di essere approfondito.

I primi due episodi stagionali (arrivati su TimVision poco prima che la serie venisse rinnovata per una sesta e ultima stagione) sono diretti dalla protagonista Elisabeth Moss e mettono in scena, con la consueta eleganza e forza espressiva, una situazione che era già stata largamente anticipata nell’ultimo ciclo di episodi, cioè un imminente scontro totale fra June, che si è appena vendicata di Fred, e Serena, che si è ritrovata il marito ammazzato in modo abbastanza brutale proprio da June.

Ma questa inevitabile sfida, e le modalità in cui si sta sviluppando, stanno spingendo tutta la serie verso un terreno ancora inesplorato e probabilmente “necessario”, per quelle che sono le direttrici principali della storia.

Sul fatto che The Handmaid’s Tale sia molto cambiata, fosse anche solo in termini di trama, non è cosa su cui ci sia tanto da discutere.
Nel momento in cui June ha smesso di essere un’ancella, potendo fuggire in Canada, quello che per lungo tempo è stato il cuore della serie, cioè le angherie subite da June come metafora della violenza sulle donne, del potere patriarcale, dei pericoli del fondamentalismo religioso (cristiano compreso), è necessariamente venuto meno.

Questo non significa, naturalmente, che le ancelle non esistano più, o che non esista più Gilead in quanto degenerazione fittizia ma comunque inquietante del più crudo conservatorismo made in USA.
Anzi, in questi due episodi alcune delle scene più forti riguardano ancora le ancelle e la maledetta zia Lydia, che ha ancora ben salde le redini del destino di Janine e pure di Esther, che aveva aiutato June e le altre nella stagione quattro, e ora torna in abito da ancella.

Nella prima di queste due scene, Esther fa la conoscenza di Putnam, il suo nuovo Comandante, che le offre dei cioccolatini in una sequenza particolarmente viscida, in cui il tentativo dell’uomo di ingraziarsi la sua nuova schiava sembra completamente sordo ai chiari segnali di disagio trasmessi dalla ragazza.
Nella seconda invece, la stessa Esther, delusa dall’atteggiamento arrendevole di Janine (che ormai ha abbandonato ogni intento di ribellione e pensa solo a sopravvivere, chiudendo la sua fragile mente all’orrore), tenta di suicidarsi e di portare con sé la stessa Janine, di cui a fine episodio non conosciamo ancora il destino.

Detto questo, però, non ha neanche senso fare finta che The Handmaid’s Tale, in termini di pura forza televisiva, non giri intorno alle vicende di June e all’interpretazione di Elisabeth Moss, le cui faccette incazzate sono diventate un marchio di fabbrica pericolosamente vicino al macchiettismo, ma che ancora funzionano eccome.

Ed è proprio qui, nell’evoluzione della figura di June, che i primi due episodi stagionali di The Handmaid’s Tale sembrano poter dire qualcosa di nuovo all’interno di un percorso che altrimenti, pur nella sua solita cura formale e nella grande capacità di muovere i nostri stomaci, rischia pure di girare sempre intorno agli stessi argomenti.

E attenzione, non è detto che effettivamente la serie sia diretta in questa direzione. Diciamo che è più una potenzialità che ci vedo io, e intorno alla quale mi pare ci siano numerosi indizi, che però bisogna avere la volontà effettiva di sviluppare.

I fatti sono noti. June è ormai fuggita in Canada, e sul finire della stagione 4 lancia una spedizione punitiva nei confronti di Fred, braccato letteralmente come un cane dalle ex ancelle, che lo linciano in un bosco tenendosi pure dei simpatici souvenir come la falange che June fa recapitare a Serena.
Nella doppia premere della stagione 5, vediamo da una parte June alle prese con le conseguenze emotive e psicologiche del suo gesto (di cui non si pente minimamente) e dall’altra la scoperta, da parte di Serena, che proprio June è l’artefice dell’omicidio del marito.

Coerentemente con quello che ci dicevamo sulle promesse di sfida fra le due protagoniste, il secondo episodio termina con una scena magistrale in cui il funerale in pompa magna di Fred (per la cui sontuosità Serena ha dovuto lavorare molto, convincendo gli altri Comandanti che una cerimonia grandiosa, seppur dedicata a un formale traditore, avrebbe fatto bene all’immagine di Gilead), diventa l’occasione per un pesante sfregio a June, che su grande schermo e in mondovisione vede la figlia Hanna portata a omaggiare la memoria del suo odiato aguzzino.

Ma al netto della bellezza e della forza di quella scena, quello che mi interessa davvero sta altrove, e proprio nell’evoluzione psicologica di June e nel suo rapporto con la giustizia, la vendetta, e in definitiva il Male.

Per molto tempo abbiamo seguito le vicende di June, quando ancora la chiamavano “Offred”, e non abbiamo mai avuto dubbi su dove mettere le linee di confine fra Bene e Male.
June era la vittima, Fred e Serena i carnefici, e tutto ciò che potesse aiutare June a uscire dalla sua condizione di schiava sessuale era fondamentalmente giusto.

Questo non è cambiato, naturalmente, nel senso che Fred, Serena, e tutti i Comandanti di Gilead sono una banda di criminali senza se e senza ma (giusto con le sfumature talvolta concesse a Serena, in parte anch’ella vittima di un sistema che pure ha contribuito a creare).
Eppure, proprio nell’ultima scena dell’anno scorso, quella del linciaggio di Fred, qualcosa è cambiato anche in June.

Di fatto, quello che vediamo in questi due episodi sono i continui tentativi da parte del marito di June e delle sue amiche (che hanno condiviso lo schifo di Gilead con lei) di staccare la protagonista da quel mondo oscuro, convincendola ad abbracciare le bellezze della libertà, consci che solo lasciare andare il passato potrebbe garantirle una qualche forma di serenità.

June però non riesce ad accettare questo compromesso. Lei ha compiuto la sua vendetta nei confronti di Fred (che probabilmente lei definirebbe “giustizia”) e fatica a dimenticare che a Gilead ci sono ancora molte donne che soffrono.
In lei batte un cuore partigiano, se possiamo dire così, e per tutto il primo episodio della quinta stagione sentiamo la tensione di June fra godersi la nuova vita e tornare invece indietro per aiutare chi non è ancora riuscita a fuggire (fra parentesi, anche Emily è tornata a Gilead, anche se qui la scelta è stata obbligata dall’abbandono alla serie da parte di Rory Gilm… Alexis Bledel).

Di per sé, il desiderio di giustizia e di aiutare le sue compagne sarebbe un sentimento puramente nobile e condivisibile, ma c’è qualcosa di più, un disagio di tipo diverso.

Lo vediamo per esempio quando June decide di confessare l’omicidio di Fred, un atto per il quale, nel Canada anti-Gilead, non trova alcun tipo di punizione. “Non è avvenuto sul nostro suolo, e di fatto non ce ne frega niente”, sembra dirle la nazione che l’ha accolta, ma questo per June non basta. Il suo sembrerebbe inizialmente un senso di colpa da lavare via con una condanna penale, ma in realtà la morte di Fred ha per lei un significato non solo personale, ma anche politico, è un grido che vuole far sentire dappertutto, e il fatto che invece venga fatto passare sotto silenzio non può lasciarla soddisfatta.

Quello a cui assistiamo, pezzetto dopo pezzetto – considerando anche tutte le volte in cui June, di fronte ad amici e parenti per nulla a loro agio, si mostra diabolicamente felice delle sofferenze prodotte a Serena – è la costruzione di un personaggio che non vuole più solo evitare il Male, ma è che bisognosa di compierlo.

Questo mi sembra uno dei nuclei tematici potenzialmente più interessanti di questa stagione.
Seviziata, mortificata, umiliata per anni, June non sembra più in grado di tornare semplicemente a una vita normale. Il Male che le è stato inflitto ha messo radici, è cresciuto, e ora deve trovare sfogo in qualche modo.

Certo, il fatto che June voglia combattere contro Gilead e contro Serena è di per sé una cosa “giusta”, ma in realtà, guardando il comportamento di June di in questi due episodi, interpretato e ripreso nel modo scelto da Elisabeth Moss, ci mostra che ormai la giustizia è un tema secondario.
Quello a cui siamo di fronte è una sfida personale, una battaglia senza esclusione di colpi, in cui non esiste spazio per la compassione, per il perdono, per uno sguardo ottimista verso il futuro.
E in June, ormai, c’è qualcosa di diabolico, di sinistro, un’oscurità ingestibile che forse, così, non avevamo mai visto.

In questo senso, The Handmaid’s Tale può acquisire un ulteriore livello metaforico, facendosi simbolo di tutti quei conflitti (politici, fra popoli, fra singole persone) in cui le colpe, inizialmente molto chiare, tendono poi a mescolarsi e diluirsi nel momento in cui chi è stato ferito con il fuoco non vede alternativa se non usare il fuoco a sua volta, alimentando così un incendio in cui le cause scatenanti diventano sempre meno importanti, e quello che conta è la terra bruciata che rimane dopo il passaggio delle fiamme.

Non so se effettivamente andrà così, non so se sarà uno temi principali di The Handmaid’s Tale in queste prossime due stagioni, ma troverei solo coerente se una serie come questa, invece di mettere in scena la semplice vittoria del Bene sul Male, riuscisse a mostrarci una triste verità: che se spargi troppo veleno sulla terra, non cresce più niente, e quel poco che cresce, è velenoso a sua volta.



CORRELATI