Anteprima Gli Anelli del Potere su Prime Video. Primi due episodi un po’ meh. di Diego Castelli
Gli Anelli del Potere è la serie più ambiziosa di Prime Video e non solo. Abbiamo visto i primi due episodi e ve ne parliamo senza spoiler.
Non so nemmeno come iniziarlo, questo pezzo.
Un po’ perché Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere è una delle serie più attese dell’anno, derivata da uno dei mondi letterari più importanti e famosi del Novecento.
Un po’ perché è la serie più costosa della storia, un mezzo miliardino di dollari che, in passato, è stato avvicinato solo dalla seconda stagione di Un Medico in Famiglia.
Un po’ perché poche serie, nel passato, sono state anticipate da una tale mole di pre-giudizi, proprio nel senso di giudizi sparati sulla base di un trailer, o magari neanche di quello. Giudizi positivi di chi voleva farsi travolgere dall’hype tipo cavalloni al mare d’estate, e giudizi negativi di chi, di fronte a certe apparenti prese di posizione di Amazon, non vedeva l’ora di bocciarla perché forzatamente inclusiva, non rispettosa del materiale originale, ecc ecc ecc.
Ebbene, quello che è successo è che per una volta io e il Villa abbiamo visto i primi due episodi insieme, li abbiamo visti al cinema (invitati da Prime Video), e alla fine siamo stati pure sostanzialmente d’accordo in questo primo giudizio (che non è “pre”, ma evidentemente si basa solo su due episodi).
E questa sì mi sembra una notizia sorprendente.
Dunque, riassuntino delle puntate precedenti.
A un certo punto, Amazon decide di dare il via libera alla sua serie più ambiziosa e costosa, e per farlo punta tutto su un brand di enorme popolarità, quel Signore degli Anelli che, a inizio anni Duemila, diede vita a una delle trilogie cinematografiche più amate di sempre (nonché alla trilogia de Lo Hobbit, che invece non è fra le più amate di sempre).
Amazon non stanzia solo un imponente budget per la produzione in sé e per sé, ma spende anche un sacco di soldi per i diritti di adattamento, circa 250 milioni che però non coprono tutta la produzione di Tolkien, ma solo alcune sue porzioni, nemmeno troppo grandi. Il che significa che, nello scrivere il prequel della storia di Frodo e compagni (Gli Anelli del Potere è ambientato millenni prima della definitiva sconfitta del famigerato Sauron), molte cose potranno essere fedeli all’originale, ma un tot di altre non lo saranno, perché sennò non riescono a riempire i buchi.
Ovviamente, questa semplice notizia comincia a far serpeggiare un po’ di malumore tra i fan duri e puri di Tolkien, a cui si aggiunge poi il carico da novanta: la presenza nella serie di attori e attrici neri a interpretare elfi, nani e hobbit.
Il cast inclusivo è l’inevitabile miccia di una polemica che si trascina per mesi, e nella quale sorgono alcuni fra i citati pre-giudizi sullo show, accusato in via preventiva di voler piegare la preziosa tradizione tolkeniana ai dettami del politically correct.
Ora, è bene chiarire un paio di concetti.
Il primo è che a noi, e segnatamente a me lettore di Tolkien (non esperto eh, però lettore sì), degli elfi neri non frega niente. Sono creature fantastiche, il colore della loro pelle ha influenza zero sulla storia che se ne può raccontare, quindi amen.
Ma più in generale, ci interessa relativamente anche dell’aderenza al materiale originale. Per fare un esempio che prescinda da inclusività o meno, il fatto che uno dei personaggi protagonisti, quella Galadriel che già compariva nella trilogia di Peter Jackson con il volto di Cate Blanchett e che qui appare in una versione più giovane interpretata da Morfydd Clark, sia molto più guerriera e meno “Dama dei boschi” di quanto non fosse nel libro e nei film al cinema, ha scatenato molti malumori.
Ecco, anche di questo non ce ne frega niente. E non perché non capiamo la frustrazione di chi, conoscendo bene un materiale narrativo, preferisca vederlo adattato il più fedelmente possibile, tanto più che il mondo di Tolkien si fregia di una venerazione quasi religiosa. Ma semplicemente perché… va così ragazzi, il mondo cambia, le storie si adattano, gli artisti si copiano e si modificano. Succede tutte le volte, non stupiamoci che succeda anche con Il Signore degli Anelli (tanto più che anche la trilogia di Jackson si prendeva varie libertà, mantenendo però ben saldo uno spirito che, alla fine, era l’unica cosa che davvero contava).
Ecco, siccome queste polemiche preventive ci possono interessare come fenomeno culturale, ma tendono a non influenzare granché il nostro giudizio se non in casi più specifici (tipo Anna Bolena), quello che per noi è importante è vedere se una storia funziona, se i soldi sono stati spesi bene, se la serie che ci mettono davanti è qualcosa per cui negli anni a venire spenderemo emozioni, riflessioni, applausi.
Ed è qui che, non senza un po’ di trepidazione, vi diciamo che i primi due episodi di The Lord of The Rings – The Rings of Power non funzionano.
Lo so, è un momento particolare, prendetevi il tempo per assimilare il colpo.
Anzi, facciamo che partiamo soft.
Se parliamo di soldi, di budget, di ricchezza produttiva, su questo possiamo stare sereni. Le vagonate di dollari spesi per produrre questa serie si vedono sostanzialmente tutti.
Ovviamente è in primo luogo una questione di effetti speciali digitali e direzione artistica: che si tratti delle sognanti inquadrature a volo d’uccello su incredibili città elfiche, di immersioni in mondi sotterranei pieni di segreti nanici, o della rappresentazione di temibili creature mangiauomini, sembra proprio di stare al cinema, quel cinema, quello che tutti ci aspettavamo.
Anzi, le primissime scene, una sequela di paesaggi mozzafiato, combattimenti e colonne sonore altisonanti, ti fanno dire “beh, caspita, qui ci divertiamo”.
(Oddio, a dirla proprio tutta c’è un combattimento con un troll che, in termini coreografici, poteva essere realizzato meglio, con più attenzione alla fisicità dei corpi e meno forzature “volanti”).
Soprattutto, si vede una somiglianza vistosa (pur con vent’anni di mezzo) con il lavoro di Peter Jackson, segno che sì, Amazon ha comprato solo i diritti di alcune porzioni del lavoro di Tolkien (sostanzialmente Il Signore degli Anelli e le sue appendici), ma sa bene che il vero riferimento visivo è la trilogia cinematografica che la maggior parte dei fan, ancora oggi, considera la migliore trasposizione possibile della Terra di Mezzo.
Ma se sul fronte visivo ci sembra di vedere esattamente quello che ci eravamo aspettati (e non è poco), non di meno poi arrivano alcuni problemi veri, e arrivano là dove i soldi possono fare qualcosa, ma non molto, perché c’è un ambito dell’umana creatività in cui all’aumentare del budget non aumenta necessariamente la resa.
Parliamo ovviamente della scrittura.
Gli Anelli del Potere è ambientata durante la Seconda Era, un periodo assai lungo (ma che nelle cinque stagioni già annunciate della serie verrà condensato in pochi anni) in cui succedono molte cose importanti nel mondo di Tolkien: ovviamente la creazione degli Anelli del Potere, ma più in generale l’ascesa di Sauron e l’alleanza fra uomini ed elfi che ne causerà la prima, rovinosa caduta.
Come era lecito aspettarsi, i due showrunner della serie, J. D. Payne and Patrick McKay (curriculum misterioso, sembra che abbiano avuto le mani in pasta in diverse produzioni cinematografiche, ma di ufficiale c’è poco o nulla, come se fossero esordienti), prendono questo materiale narrativo e ne traggono una storia ampiamente corale.
Per certi versi, e volendo forzare la mano, la protagonista è Galadriel, nome già conosciuto al grande pubblico e protagonista ideale per questi anni. Un’elfa coraggiosa e determinata, disposta a tutto per vendicare i numerosi lutti patiti per mano di Sauron, un Nemico potente che molti credono ormai andato in pensione e che invece è pronto a un ritorno in grande stile.
Ma c’è anche una versione giovane di Elrond (Robert Aramayo, che al cinema era interpretato da Hugo Weaving), impegnato in una missione “architettonica” per la quale serve l’aiuto degli orgogliosi nani.
Ci sono gli hobbit (anzi, pelopiedi, che sono una delle tre razze di hobbit nonché quella espressamente citata e rappresentata dalla serie), in particolare la giovane Nori (Markella Kavenagh) che si trova di fronte una grossa novità arrivata direttamente dalle stelle.
Senza contare uno dei personaggi che più ha fatto discutere fin dalle locandine, cioè l’elfo Arondir (Ismael Cruz Cordova), fra i primi ad accorgersi di una qualche minaccia imminente, che mette anche a repentaglio il suo sentimento clandestino per la bella umana Bronwyn (Nazanin Boniadi).
Bene, fin qui tutto nella norma, diciamo.
Il problema sorge quando, a fine del primo episodio, mentre scorrono i titoli di coda e restiamo in attesa del secondo, io e il Villa ci voltiamo e leggiamo uno negli occhi dell’altro la stessa, muta perplessità: “Ma tu ti sei divertito? Perché io così così”.
È difficile dare una spiegazione razionale di questo fatto, specie non potendo/volendo fare grossi spoiler, perché è una sensazione complessiva.
Al termine dei primi due episodi di The Rings of Power, e dopo aver seguito i primi passi della storia personale di molti personaggi, non ti interessa granché di nessuno di loro. E non perché non gli succedano cose importanti: rischiano la morte, si imbattono in situazioni per loro totalmente aliene, ci raccontano più o meno direttamente le ingiustizie subite in passato e che ora meritano vendetta.
Eppure manca qualcosa, un vero e visibile centro narrativo, una molla emotiva che funzioni davvero. L’incastro delle varie storie è molto scolastico, il ritmo è spesso spezzato dall’autocompiacimento visivo, l’azione pura è probabilmente troppo scarna, le poche scene teoricamente comiche non suscitano poi tutta questa simpatia, e su tutto aleggia una certa cappa di spiegone/riassuntone che forse era pure inevitabile, ma non aiuta con il coinvolgimento.
Che sia proprio una conseguenza del fatto che i diritti coprono solo un pezzo della produzione di Tolkien, con la conseguente necessità di sorvolare su alcuni dettagli e inventarne altri? Cassare certe storie per stiracchiarne altre?
Nonostante un certo imbarazzo nel definire i contorni di una generica sensazione di incompiuto, è comunque possibile evidenziare qualche specifico dettaglio stonato.
Per esempio, in questi primi due episodi, The Rings of Power è troppo, troppo, troppo aulica.
Sia ben chiaro, siamo nel mondo dell’high fantasy per eccellenza, quel fantasy epico che, oltre a certe sue caratteristiche codificate (un mondo completamente diverso dal nostro, il Bene contro il Male, ecc) tende a essere riconosciuto anche per il fatto di prendersi molto sul serio, e di spingere su un tasto poetico, quasi divino, che sicuramente non può tramutarsi in un film di Tarantino.
Allo stesso tempo, non si può fare finta che non siano passati quasi settant’anni dalla prima pubblicazione de Il Signore degli Anelli, e che ci si trovi pure su un medium diverso. Già Peter Jackson, quando di anni ne erano passati cinquanta, trovò per la sua trilogia un equilibrio in cui il dosaggio dei vari elementi (fra cui comparivano anche azione, ironia, spettacolo) era adatto al pubblico di quegli anni, senza essere irrispettoso delle atmosfere originali.
In questo caso, invece, i primi due episodi di The Rings of Power sono dei discreti mattoni, proprio perché si indugia molto in scene di grande lentezza, fin troppo contemplative, senza dimenticare molti dialoghi che, più che un sapore “classico”, suonano proprio vetusti. Siamo d’accordo che gli elfi, creature millenarie e quasi eteree, debbano parlare in modo diverso rispetto agli umani e ai nani, ma se ogni volta che c’è un elfo sullo schermo ti fa venire voglia di cambiare canale in attesa che finisca il discorso, è un problema.
E tutto questo in una struttura seriale, che non implica la visione magari difficile ma complessiva di un singolo prodotto, ma il ritorno di settimana in settimana.
Questo approccio quasi filologico (in una serie che però filologica per davvero non è) si vede anche nel trattamento di molti personaggi, a cominciare dalla stessa Galadriel.
Nella trilogia al cinema, le scene con lei erano le più placide e poetiche, ma sul volto di Cate Blanchett non mancava mai un enigmatico sorriso che era in grado di alleggerirle, di scioglierne parte della pesantezza.
La Galadriel di The Rings of Power, invece, è semplicemente una musona, se mi passate questo termine molto tecnico.
Attenzione, non sto dicendo che sarebbe dovuta diventare una cabarettista tipo supereroina Marvel, né che una serie come questa non possa trovare momenti di maggior leggerezza in altri punti. Ma resta un tema di “likeability”: se presenti un personaggio con una storia dolorosa e un obiettivo preciso in mente, il pubblico deve essere in grado di empatizzare con quella storia e con quell’obiettivo, deve sentirsi trascinare, deve scegliere (magari inconsciamente) di mettersi alle spalle di quel personaggio e supportarlo nel suo viaggio, sentendo il peso delle sue scelte (che pure ci sono). Che poi a volte quel sentimento si sposti in modo inaspettato (tipo che solitamente la gente ama più Sam che Frodo), poco importa, perché intanto quel sentimento c’è.
Con questa Galadriel, invece, quel senso di empatia non sboccia, almeno per ora, e a qualcosa contribuisce anche la recitazione di Morfydd Clark: anche lei sembra crederci davvero tantissimo, e il confine fra grande intensità e Occhi del Cuore può essere molto sottile. Insomma, ti aspetti che da un momento all’altro compaia Cate Blanchett a dirle “Morfydd, ho capito che hai un nome strano e ce l’hai su col mondo, però anche meno.”
È chiaro che siamo solo all’inizio. Siamo in presenza di un piano dichiaratamente pluriennale, di una storia potenzialmente stracolma di avvenimenti, di un progetto esplicitamente enorme. Quindi non è che ora smettiamo di guardare Gli Anelli del Potere perché i primi due episodi ci hanno lasciati freddi.
Però quella freddezza è palese, e non possiamo non segnalarla. Non è un buon biglietto da visita, e soprattutto è un biglietto da visita peggiore rispetto alle sterili polemiche sull’inclusività, che sarebbero state facilmente spazzate via da uno spettacolo appassionante e divertente.
Sicuramente c’è tempo per recuperare, anche se credo che una fetta di pubblico, quella meno avvezza al fantasy e convinta a dare un’occhiatina dal grande buzz intorno alla serie, rischi di fuggire subito.
Oh, che può pure essere un punto d’onore: faccio il fantasy duro e puro, e se non ti piace ti arrangi. È una posizione legittima, anche se forse una posizione su cui è un po’ rischioso scommettere mezzo miliardo di dollari.
Senza contare che, per puro caso, si è creato un inevitabile paragone fra due prodotti fantasy, prequel, ad alto budget, usciti nello stesso periodo, e per ora House of The Dragon è in netto vantaggio: lì ogni tanto chiudi gli occhi perché le scene hanno un impatto troppo forte, qui invece li chiudi perché sovviene un po’ di torpore.
La sfida, comunque, è appena cominciata, staremo a vedere.
Perché seguire The Lord of The Rings – The Rings of Power: per l’altissimo livello produttivo e perché è una serie così enorme che bisogna starle dietro per forza.
Perché mollare The Lord of The Rings – The Rings of Power: perché i primi due episodi, nonostante la loro ricchezza, appassionano poco.
PS Lo volete sapere un altro segnale del fatto che qualcosa non torna?
Siccome il Villa non ama il fantasy (eufemismo), davo per scontato che nel buio della sala mi avrebbe fatto qualche battutina a cui avrei dovuto rispondere con nerdissimo sdegno. Ecco, di fronte a certe moine e certe tuniche-pigiamini, le battute nel buio le ho fatte io.
Brutta storia.