26 Agosto 2022

Five Days at Memorial su Apple Tv+ – Storia vera e angoscia fuori scala di Diego Castelli

Su Apple TV+, Five Days at the Memorial racconta la vera storia di un ospedale rimasto isolato durante l’uragano Katrina

Pilot

Che bello, oggi devo scrivere la recensione di una serie che mi sta piacendo, che dura poco, che non è tratta da un’immensa saga letteraria o fumettistica (per quanto sia effettivamente tratta da un libro) e che va via dritta come un fuso e resta sempre comprensibile. Poi certo, ti ammazza di ansia, però che comodità.
Parliamo di Five Days at Memorial.

Tratta dal libro quasi omonimo della giornalista Sheri Fink, a suo volta ricavato da un articolo con cui la stessa Fink si portò a casa un Premio Pulitzer nel 2009, racconta di cinque giorni in un ospedale di New Orleans, il Memorial Medical Center (di qui il titolo di “Cinque giorni al Memorial”), che rimase isolato dopo l’inondazione della città durante l’ormai famigerato uragano Katrina.

La situazione inattesa e pericolosa mostrò non solo le carenze della macchina dei soccorsi a livello statale, completamente impreparata a un evento di quelle dimensioni, ma creò le condizioni per eventi e decisioni di estrema drammaticità e che preferisco non spiegare nel dettaglio, anche se con le storie vere il concetto di spoiler è sempre un po’ più sfumato.

La serie è adattata per la televisione (anzi, per lo streaming) da John Ridley (creatore di American Crime e sceneggiatore di 12 Anni Schiavo) e Carlton Cuse (produttore di Lost, creatore di Jack Ryan, co-creatore di Bates Motel, e tanta altra roba), e si compone di otto episodi complessivi.
Come dicevo sopra, una cosa facile facile.

Nel cast troviamo facce che ben conosciamo: c’è Vera Farmiga nei panni di una dottoressa, Cherry Jones (24, Transparent) che guida l’organizzazione interna dell’ospedale nella vita quotidiana e, poi, nell’emergenza, e riconosciamo anche Robert Pine, uno che ha una carriera cine-televisiva lunghissima (a partire dai Chips) e che detiene quello che potrebbe essere un record invidiabile: ha partecipato a 5 episodi de La Signora In Giallo, interpretando ogni volta un personaggio diverso.
(che poi non credo sia un record di niente, ma era una cosa strana e volevo dirla)

Da un certo punto di vista, Five Days at Memorial è una serie “facile”. Alle sue spalle ha una storia vera che è più terribile e angosciante di molte storie inventate, racconta una ferita americana non del tutto rimarginata, può inserirsi in un contesto in cui le crisi ambientali sono anche più frequenti e inquietanti rispetto al 2009, e permette agli americani di fare una delle cose che storicamente sanno fare meglio: i bei disaster ansiogeni dove un po’ di poveri cristi devono sopravvivere a un disastro totale e non sai mai chi arriverà in fondo.

Naturalmente, quella facilità è solo sulla carta, o su determinati aspetti della produzione, perché poi Five Days at Memorial – che alterna il racconto dei quei cinque giorni agli interrogatori a cui vengono sottoposti tutti i protagonisti a posteriori – ha il suo bel daffare a ricostruire una situazione ai limiti dell’impossibile, con un ospedale allagato e isolato, situazioni di stress altissimo, e naturalmente deve riuscire a impregnare i suoi interpreti con questa ansia, per potercela restituire sullo schermo in tutta la sua urgenza sudata (la storia si svolge in piena estate, e il caldo è uno dei molti problemi che i protagonisti devono affrontare).

Pur non avendo visto la seconda metà della serie, che mentre scrivo deve ancora uscire, mi sento abbastanza sereno nel dire che in Five Days at Memorial funziona praticamente tutto.
Sono cinque giorni terribili, in cui tutto ciò che può andare male va peggio, e in cui la regia, la scrittura e le interpretazioni (senza contare tutto il reparto scenografico e del trucco che in una serie così conta tantissimo), lavorano all’unisono per restituirci l’ansia terribile dei protagonisti e il doppio senso di urgenza e di sconforto che la situazione richiede.

Ovviamente, la possibilità di dividere il racconto più grande in tante piccole sottostorie contribuisce a comporre un mosaico in cui riusciamo a percepire le necessità di molti personaggi diversi, sapendo che non tutte potranno essere soddisfatte. Si va dai pazienti in forte sovrappeso per i quali l’evacuazione dall’ospedale è più complicata, ai neonati da portare a mano agli elicotteri (quandi ci sono). Dai lavoratori dell’ospedale che cercano di adempiere ai propri doveri in situazioni sempre più precarie, ai loro parenti che, da fuori, cercano di capire come portare i loro cari in salvo, e via dicendo.

Ma a parte l’intrattenimento ansiogeno, che già di per sé può andare bene, ci sono anche un po’ di domande fra il politico e il filosofico che la serie mette sul campo in modo abbastanza esplicito.
Al di là dell’accusa evidente a una macchina statale inefficiente, c’è un tema più ampio e perfino più inquietante che riguarda il confine fra l’ordine e il caos, un confine molto più sottile di quello a cui siamo abituati a pensare.

Quello che Five Days at Memorial ci sta dicendo, forse con un messaggio alla The Walking Dead, ma senza componente fantasy/fantascientifica, è che la struttura stessa della nostra società, quello che noi riteniamo scontato e immutabile, e soprattutto “dovuto”, è in realtà una conquista sempre fragile, che può essere letteralmente spazzata via da forze incontrollabili.
E quando questo avviene, chi lo sa cosa succede alla nostra razionalità, alla nostra cultura, alla nostra stessa umanità?

In conclusione, una miniserie che mi sento di consigliare per forza drammatica, valore informativo, spessore filosofico. Secondo me ne sentiremo riparlare nella prossima stagione dei premi.
Poi dura solo otto episodi, un sollievo per qualunque ansia da prestazione seriale.

Perché seguire Five Days at Memorial: è una di quelle storie vere in cui gli americani sono maestri: ritmo preciso, buoni mezzi produttivi, tanta angoscia.
Perché mollare Five Days at Memorial: perché quell’angoscia può anche superare un certo livello di guardia e magari far cambiare canale. Che poi non c’è canale da cambiare, ma ci siamo capiti.



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