12 Luglio 2022

The Boys 3 season finale: la migliore è ancora lei di Diego Castelli

La terza stagione di The Boys conferma quanto di buono fatto vedere dalle prime due: non ci siamo annoiati un solo minuto

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Era possibile, ma non era scontato. Arrivati a luglio, l’accesa sfida fra i titoli più nerd-super-pop della prima metà del 2022 è stata vinta a mani basse da The Boys.
Obi Wan Kenobi, che poteva essere una perla di cui avremmo parlato per anni, non è nemmeno entrata in competizione, brutta e scialba dal minuto uno. La quarta stagione di Stranger Things, dal canto suo, ha mantenuto un livello decisamente più alto, non lontano dai suoi standard, rimanendo però invischiata in quel problema quantitativo di cui abbiamo a lungo parlato, per cui alcuni eventi e scoperte importanti sono stati annacquati in minuti e minuti completamente inutili.
Solo la novità Peacemaker, probabilmente, è riuscita a tenere botta, partendo però da un’ambizione minore.

Questo non sarà un articolo di confronto, non ci interessa, non ha tanto senso, e di insulti per le nostre opinioni su Stranger Things ne abbiamo ricevuti abbastanza. Ma questa introduzione era per dire che invece, con The Boys, abbiamo poco da eccepire: solidità narrativa, perfetta gestione del ritmo, un sacco di scene memorabili, e la sensazione di un percorso preciso e compiuto, che lascia aperta la porta per un futuro luminoso.
Che benessere.

Dei primi tre episodi della terza stagione avevamo già parlato, e prima di buttarci sul finale vale la pena notare come The Boys abbia mantenuto anche in questo ciclo la stessa impostazione di base: i protagonisti rimangono quelli, il grande cattivo è sempre Homelander (che verrà sconfitto, se verrà sconfitto, solo all’ultimissima puntata), e ogni nuova stagione prevede l’inserimento di un nuovo personaggio che magari avrà vita breve nella serie, ma consente di sparigliare un po’ le carte. L’anno scorso fu Stormfront, quest’anno è toccato a Soldier Boy, interpretato dall’ex Supernatural Jensen Ackles.

Questi personaggi aggiuntivi – a cui dobbiamo sommare anche Victoria Neuman, di cui avevamo scoperto i poteri scoppia-testa nel finale della stagione 2, e che nella terza è diventata il villain più politico, infingardo e meno muscolare rispetto al pericoloso ma più limpido Homelander – offrono un tot in più di divertimento, ma servono anche a rimescolare le relazioni fra i personaggi principali, a far emergere punti di forza e di debolezza, a buttare carne al fuoco, insomma, che però non rimane mai limitata al qui e ora della singola stagione, ma riverbera la propria influenza su tutta la serie.

Il finale di stagione merita un’attenzione particolare perché riesce a fare un’operazione ovvia nella teoria, ma tutt’altro che semplice in storie così corali, così attese dal pubblico, così passibili di inciampi a destra e a manca.

Se c’è una regola basilare di ogni manuale di sceneggiatura, che di riflesso diventa uno degli strumenti di valutazione degli script, è la capacità di mettere ordine nel proprio materiale, di chiudere i cerchi, annodare i fili. Se pianti un semino, e soprattutto se mi fai vedere che lo pianti, quel semino deve germogliare, altrimenti lo spettatore proverà sempre una frustrazione.
Per dirla alla Hitchcock (che ne parlava in termini di regia più che di sceneggiatura, ma il succo non cambia): se inquadri una pistola, prima o poi quella pistola deve sparare.

In questo senso, nel corso dei vari episodi, la terza stagione di The Boys aveva piantato un sacco di semini, riferiti alla psicologia di ogni singolo personaggio, alle loro relazioni reciproche, alla macronarrazione e ai macrotemi della serie nel suo complesso.
Ed è davvero una soddisfazione vedere come praticamente tutti questi semi, alla fine, abbiano dato i loro frutti, che per The Boys significa gente che mena nel modo e nel momento giusto, ma anche una precisa riallocazione delle pedine sulla scacchiera, in base a nuove scoperte, nuove motivazioni, nuove vittorie e sconfitte.

Sarebbe lunga fare un elenco minuzioso, ma questo lavoro di preciso riannodamento dei fili coinvolge un po’ tutti. Personaggi relativamente “minori” come The Deep (tutta la sua parabola da zerbino di Homelander con la fidanzata media-manager, i tradimenti con il polpo, il finale con lei che si emancipa da lui e lo lascia nell’amarezza), Ashley Barrett (impaurita braccio destro di Homelander, che nel finale protegge la fuga di Maeve dopo essere stata umiliata dal suo capo per via della parrucca), o MM, il cui percorso come padre traumatizzato è una specie di drama interno alla serie action, che si conclude con la sua crescita e la contemporanea discesa agli inferi del patrigno della figlia, acceso sostenitore di Homelander proprio fino all’ultima, bellissima scena. Non parliamo poi di Frenchie e Kimiko, da sempre coppia pucciosa della serie, che anche quest’anno hanno avuto parecchio da fare.

Ma il discorso vale, ovviamente, anche per personaggi più importanti.
Starlight e Hughie vivono una crisi del loro rapporto che parte da certe insicurezze “maschili” di Hughie, passano attraverso l’assunzione del pericoloso Temp V, e arrivano a un finale in cui Hughie, per aiutare Starlight contro Homelander, rifiuta di prendere la droga e fa vincere l’ingegno, quando alzando al massimo le luci dello studio televisivo consente alla fidanzata di caricarsi abbestia e infliggere un buon colpo al nemico (il colpo non serve a moltissimo, ma questo non cambia nulla del fatto che Hughie e Starlight, in questo caso, fanno squadra in modo più sano e intelligente rispetto a cinque minuti prima).
Maeve arriva a uno scontro finale con Homelander da cui esce sconfitta, ma al termine del quale si riscatta impedendo a Soldier Boy di distruggere tutto, un’intemerata che la lascia senza poteri e le permette così, altro filo riannodato, di iniziare una vita da essere umano con la fidanzata, come quest’ultima desiderava da tempo (poi vedremo quanto durerà).

Il cuore di The Boys, comunque, resta legato alla faida fra Butcher e Homelander, a cui stavolta si è aggiunto Soldier Boy, di fatto “padre” di Homelander (con le virgolette, ma ci siamo capiti).
In questo rapporto troviamo la sfida più grande per una serie come questa: giustificare il fatto che Homelander sopravviva fino alla fine dello show, e contemporaneamente garantire la sopravvivenza dei suoi nemici, Butcher su tutti, anche quando una loro morte sembrerebbe logica e inevitabile.

Nel caso della terza stagione, la comparsa di Soldier Boy, già forte di suo e possessore di quel potere capace di uccidere e/o lasciare senza poteri i sup, rappresentava la famosa pistola di Hitchcock, a cui si era aggiunta, nel corso delle settimane, anche un’altra arma nascosta, ma sempre pronta a sparare, cioè l’impressione che, prima o poi, Butcher avrebbe dovuto menarsi anche con Soldier Boy, e non solo con Homelander.

La chiave di volta di questo discorso è stata l’utilizzo di Ryan, figlio di Homelander e della ex di Butcher, che fin dalla prima stagione (dettaglio importante per la credibilità complessiva dell’operazione) rappresenta uno degli elementi di maggior attrito e, contemporaneamente, di maggior sospensione della battaglia fra i due protagonisti.

A conti fatti, Ryan viene usato come un passpartout narrativo per far funzionare tutto: è per lui che Butcher attacca briga con Soldier Boy; è grazie a lui che Homelander mostra la poca, pochissima umanità che gli rimane; è sempre per sua intercessione che lo stesso Homelander non uccide tutti i buoni non appena Soldier Boy finisce (letteralmente) fuori dalla finestra; ed è sempre lui il co-protagonista di quella meravigliosa scena finale in cui Homelander viene inneggiato dalla follia anche dopo aver ucciso un innocente.

Perché The Boys non si limita al compito teoricamente obbligatorio (non sempre portato a termine con precisione, come ci insegna una serie pur epocale come Lost) di riannodare i propri fili, ma riesce comunque a mantenere uno sguardo complessivo.

La repentina e inarrestabile “trumpizzazione” di Homelander, il suo atteggiarsi a vittima dei media quando in realtà è il più pericoloso pazzoide in circolazione, è il nocciolo politico e filosofico di tutta la stagione, e ci porta a un finale che suona inquietantemente contemporaneo, con una folla inneggiante che, anche di fronte a un crimine deliberato, lo accetta e lo applaude perché commesso da un proprio idolo, perché arrivato “da uno che sta dalla mia parte”, quale che sia.

Suonano talmente tanti campanelli che per analizzarli nel dettaglio servirebbero altri dodici articoli e competenze che vanno oltre le mie.
Resta il fatto, però, di una stagione che riesce a offrire il consueto divertimento caciarone di The Boys, mantenendo ben salda la barra della narrazione senza perdersi alcun pezzo, e trovando il tempo di dare a quella struttura una respiro sociale e politico perfettamente chiaro, perfettamente lineare, perfettamente comprensibile nelle sue dinamiche di fondo (e anche per questo più inquietante, perché riconosciamo la lettura metaforica di una realtà che metaforica non è).

Siamo vicini alla perfezione, quindi, anche se la perfezione non è di questo mondo.
E se naturalmente è possibile trovare opinioni di segno diverso qualunque sia l’oggetto dell’analisi (per esempio, la puntata Herogasm è stata criticata da una parte dei lettori del fumetto, secondo i quali era troppo edulcorata, cosa che ha fatto partire le solite discussioni e paragoni fra un medium e l’altro), ci sono elementi non precisissimi anche nella struttura raffinata che abbiamo descritto poco sopra.

Per esempio, l’uso di Ryan come escamotage per risolvere tutti quei potenziali intoppi di sceneggiatura è suonata come una mossa geniale, ma non tutte le articolazioni di quella scelta sono sembrate ugualmente efficaci. Soprattutto, che queste cose avvengano tutte insieme può dare una certa sensazione di rapidità.

Stessa cosa si potrebbe dire del numero relativamente basso di morti: alla fine, l’unico personaggio importante a morire è Black Noir, che comunque è letteralmente uno di cui non abbiamo mai visto la faccia. In questo senso, la sopravvivenza di Maeve è sembrata un pochino una paraculata, per quanto coerente con quanto visto fino a quel momento circa i poteri di Soldier Boy.

In ultimo, un finale così preciso e calibrato al millimetro mi ha fatto sentire la mancanza di almeno una scena tamarra “alla The Boys”. Qui potremmo discutere, magari consideriamo la morte di Noir o del cittadino alla fine come appartenenti a questa categoria. Però, giusto per capirci, ancora oggi una delle scene più “The Boys” di questa stagione rimane quella del tizio morto perché il sup rimpicciolito ed entrato nella sua uretra si è ingrandito per sbaglio dopo uno starnuto.
Il fatto che quel ricordo così vivido appartenga al primo episodio è un segnale dal fatto che, anche per The Boys, il cazzeggio viene dopo una narrazione fatta come Dio comanda, e magari è giusto così.

In conclusione, l’impressione lasciata dalla terza stagione di The Boys è quella di un prodotto che, nonostante l’hype esagerato che si porta costantemente dietro, riesce tuttora a mantenere una straordinaria solidità, una frizzante voglia di stupire, e un’invidiabile capacità di posizionamento.

Vale la pena ricordare, a questo proposito, che The Boys non è solo “una serie bella e divertente”, ma una serie che si pone in aperto contrasto con un mondo supereroistico che, altrove in tv e soprattutto al cinema, lavora su toni, stili, profondità completamente diverse. Che non vuole essere un insulto alla Marvel (parlavo ovviamente di lei), ma semplicemente il riconoscimento della capacità di The Boys di essere altro, e di esserlo nel modo migliore possibile.

Stagione quattro già confermata, attendiamo con rinnovata fiducia.



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