Pistol – FOX: la serie di Danny Boyle sui Sex Pistols è un po’ una delusione di Marco Villa
Una scrittura pigra e una regia svogliata: ecco perché Pistol non ci ha convinto fino in fondo, nonostante Danny Boyle
La grande truffa del rock ‘n roll. Una definizione diventata iconica, per raccontare nascita e (brevissima) vita di una band che ha cambiato la storia del rock, ripudiandolo. Una manciata di canzoni ed è nato il primo movimento punk, con tutto ciò che ne è conseguito in termini musicali (e non solo). Quella stessa truffa, quella stessa storia viene raccontata in Pistol, che già dal titolo mette al centro di tutto i Sex Pistols, la band che riuscì a farsi portabandiera di un disagio diffuso nell’Inghilterra più proletaria, al grido di: “Non sappiamo suonare e per questo suoniamo”. Ma che fu anche un prodotto creato a tavolino da Malcolm McLaren, un manager nella precisa essenza del termine. Questa la storia, una vicenda affascinante e ricca. Che Pistol però non riesce a valorizzare.
E dire che i presupposti c’erano tutti, a cominciare dal nome di Danny Boyle alla regia degli episodi. Eppure questa miniserie di HBO (6 episodi) si incaglia sotto ogni punto di vista. A cominciare dal pilot, interamente incentrato sulla figura di Steve Jones (Toby Wallace), futuro chitarrista dei Sex Pistols ed elemento che spinge McLaren (Thomas Brodie-Sangster) a mettere in piedi tutta la baracca. Il primo episodio ci racconta il personaggio nei dettagli, da come si arrabatta per arrivare a fine giornata e trovare un posto dove dormire, passando per la sua ossessione per la musica e finendo con un indugiare deleterio per i traumi che ha vissuto.
Proprio questi fanno capire che qualcosa è andato storto in scrittura: la volontà degli autori è quella di raccontare la storia di un personaggio con dei problemi enormi, trasformando in un dettaglio le sue specificità. Lo Steve Jones del primo episodio sembra il modellino dell’adolescente traumatizzato e quei traumi vengono collegati con un filo rosso evidentissimo ai suoi comportamenti.
E questo è il problema principale di Pistol, che nei primi due episodi non riesce a trovare un linguaggio adeguato a ciò che racconta: il contenuto della storia è abrasivo, è il concetto stesso di punk, ma viene portato sullo schermo in modo iper-convenzionale, quasi scontato. Quasi rassicurante, vien da dire, come se il mostrare i traumi di Steve servisse in qualche modo da giustificazione per tutto quello che fa.
Purtroppo non va meglio con la regia. L’obiettivo di Boyle era di lavorare a Pistol come se pure lui fosse negli anni ’70: con quello stile, quei colori, quella ruvidezza, perfino il formato 4:3. Il risultato, però, non è all’altezza, perché la sensazione è che non sia qualcosa di autentico, ma quasi di una parodia di un film indipendente degli anni ’70.
Pistol però non è tutta da buttare: va sottolineata la capacità di trasmettere il senso di euforia e fermento della Londra di quegli anni, con gente che saluta una ancora sconosciuta Siouxsie o un Mick Jones (futuro Clash) che viene presentato come “un giovane chitarrista” Nel secondo episodio, è ottimo il modo in cui viene ricreata una festa, che segna l’inizio della storia della band, così come è migliore il modo in cui sono presentati Johhny Rotten (Anson Boon) e Sid Vicious (Louis Partridge). E poi le musiche: la colonna sonora è ottima (ci mancherebbe?) e non vogliamo immaginare l’importo del bonifico per le sole tracce di Bowie e Pink Floyd che aprono e chiudono il primo episodio. Però non basta per farsi tirare in mezzo e farsi convincere a proseguire nella visione, a meno che non si sia grandi fan dei Sex Pistols e di quel periodo. Un po’ una delusione, insomma.
Perché guardare Pistol: per il modo in cui viene ricreato quel mondo
Perché mollare Pistol: perché la scrittura è convenzionale e un po’ pigra