Stranger Things 4 su Netflix: la recensione in anteprima (e senza spoiler) di Diego Castelli
La prima tranche della quarta stagione di Stranger Things ci ributta nell’amabile provincia anni Ottanta, quella con i mostri.
Quando ci mandano degli episodi in anteprima, per di più di una serie amata come Stranger Things, non so mai se gioire o meno. Gioisco perché li posso vedere e ve ne posso parlare prima, naturalmente, ma un po’ mi frustro perché insieme agli episodi ci arriva (giustamente) anche una lista di spoiler di cui non possiamo parlare, e che mi lascia l’impressione di poter dire giusto “mi è piaciuta” o “non mi è piaciuta”.
La situazione non è così tragica naturalmente, è più una mia percezione, acuita poi dal timore che qualcuno che non guarda nemmeno i trailer possa decidere di leggere queste righe, trovando informazioni che comunque non avrebbe voluto sapere, anche se la stessa Netflix le considerava accettabili.
A parte queste ansie, comunque, accetto la sfida, e in nome della nostalgia anni Ottanta e di un mondo cinematografico più genuino e comprensibile, facciamo che prima affrontiamo tutto quello che funziona in questa prima parte di stagione (7 episodi il 27 maggio, poi due episodi probabilmente molto lunghi il primo luglio), e poi vediamo cosa non torna del tutto.
Sul fronte dei “pro”, beh, è Stranger Things. Nel senso che non ha smesso di essere Stranger Things.
Arrivata a quasi tre anni di distanza dalla terza stagione, con in mezzo una pandemia che ha mandato il mondo Sottosopra (mi si perdoni questa battuta terrificante), la serie è ambientata sei mesi dopo la fine della precedente, lasciando a noi il compito di accettare il fatto che i protagonisti sembrano le versioni stiracchiate e deformate di quelli di una volta (perché l’adolescenza questo fa, deforma e stiracchia, e devi solo sperare di essere decente alla fine del processo).
Come avevamo visto già con lo scorso finale, il gruppo si è per la prima volta diviso, perché Eleven è andata a vivere in California con Joyce, Will e Jonathan, e tutti gli altri sono rimasti nella frizzantissima Hawkins.
Questa separazione, che già crea una tensione poco piacevole, si unisce poi ai classici casini dell’adolescenza e del liceo: arriva il bullismo vero, arrivano le difficoltà relazionali, arrivano i veri turbamenti del cuore.
Non che questi elementi non fossero presenti in una forma o l’altra anche nelle stagioni passate (in fondo c’erano già anche alcuni personaggi importanti più grandi dei veri protagonisti, tipo Nancy o Steve), ma basta già il primo episodio per rendersi conto che Stranger Things è stata per anni una serie di ragazzini, e ora è una serie di adolescenti, e ormai non poteva essere altrimenti.
Questo spostamento anagrafico, per fortuna, trova un corrispettivo nelle scelte stilistiche e metatestuali. Con Stranger Things, i Duffer Brothers hanno creato un grande omaggio agli anni Ottanta, o meglio, agli anni Ottanta per come si vedevano al cinema, e se le stagioni passate pescavano da un calderone di cui facevano parte soprattutto Steven Spielberg e Stephen King, ora che i protagonisti sono cresciuti si può passare al vero horror adolescenziale.
Parliamo di Nightmare (citato a livello tematico, ma anche personificato dalla presenza non fissa ma rilevante di Robert Englund, interprete a suo tempo di Freddy Krueger) e di altri capisaldi dell’horror di quegli anni, quello che si faceva proprio metafora delle turbe dell’adolescenza. E naturalmente c’è anche tutto il mondo John Hughes, quello cioè legato all’adolescenza vera e propria, senza metafore demoniache. Il teen drama cinematografico pochi anni prima che esplodesse quello televisivo.
Tutto questo materiale è gestito con la consueta abilità, cercando e quasi sempre trovando il giusto mix di toni (la commedia, il dramma ora diventato anche più adulto, l’horror che può essere più inquietante e splatter di prima, ecc), ma anche il corretto equilibrio fra citazionismo e trama, fra nostalgia e necessità di creare qualcosa di nuovo.
Stranger Things è da sempre una serie che si appoggia moltissimo al concetto di nostalgia, sfruttato non solo nei contenuti, ma anche nelle forme: a riportare a quel mondo non sono solo le citazioni nei dialoghi o le scenografie, ma un vero e proprio modo di concepire la narrazione come meccanismo intricato ma comunque fluido, e come una base su cui montare un certo tipo di epica e di spettacolo (ci sono un paio di scene clamorose da questo punto di vista, in particolare una in cui una partita di Dungeons & Dragons diventa un spettacolare esempio di suspense ed epica esplicitamente sportivo-guerresca).
Da questo punto di vista, Stranger Things non ha mai smesso, nemmeno questa volta, di essere una serie “vera”, al netto dei suoi debiti. E non solo per la sua capacità di offrire una storia con un capo e una coda, ma anche perché quella storia, che pure – come detto – ha cambiato alcuni riferimenti stilistici, resta comunque saldamente inserita nella mitologia che lo show crea da quattro stagioni.
Quindi sì, c’è una nuova minaccia, un nuovo mostro, che non arriva però dal nulla, ma riesce a inserirsi senza sbavature nella struttura più ampia della serie, che comprende una dimensione parallela e oscura, una ragazzina dotata di speciali poteri che a quella dimensione sono correlati, un mondo “adulto” che cerca di sfruttare proprio quelle potenzialità e via dicendo.
Un po’ come se Stranger Things fosse fatta a cerchi concentrici, tutti collegati, nei quali la nostra attenzione si sposta ora su un livello e ora sull’altro, ma sempre avendo presente la visione di insieme. A ben guardare, questa stagione ripesca in maniera ancora più precisa e puntuale nel proprio passato, a riprova del fatto che non è un’antologia sugli anni Ottanta, ma una struttura che a quegli anni si ispira, senza però rinunciare a una sua identità.
Se tutto questo funziona, in particolare nella premiere e nel lungo mid-season finale – che introducono nuovi e riusciti personaggi e dispongono accuratamente fili narrativi che altrettanto accuratamente riannodano – non significa che funzioni proprio tutto.
In particolare, la parte centrale suona significativamente più lenta e meno impattante, e se alcune storie sembrano progredire con grande rapidità e senza mai incappare nella mancanza di materiale, altre danno l’impressione di trascinarsi in maniera più faticosa (su tutte la storia di Eleven, in cui si vede fin troppo la necessità di farle recuperare i poteri ma possibilmente “non troppo presto”).
Ma anche nel passaggio dalla tarda infanzia alla vera adolescenza c’è qualche passo falso, soprattutto nella rappresentazione del bullismo e degli elementi che tendono a dividere un gruppo che è sempre stato unito, e messo ora alla prova degli ormoni e dell’ansia da prestazione sociale.
Tutte idee ragionevoli e coerenti con il contesto, ma che lasciano comunque la sensazione che i Duffer e i loro collaboratori e collaboratrici siano leggermente più a loro agio con il mistero e il soprannaturale (che finisce comunque con l’avere un peso maggiore, metaforico o meno che sia) che non con le paturnie dei primi peli sotto le ascelle, qui e là piuttosto forzate o posticce.
Va anche detto che la stagione presenta davvero tante storie diverse, che si amalgano pure bene, ma proprio perché sono così tante, non è difficile trovare quelle che funzionano meglio e quelle che sembrano un po’ tirate via, piazzate perché come fai a non piazzarle, senza però essere riusciti a dargli proprio quell’ultima rifinitura.
E poi secondo me c’è un problema più generale, che i Duffer non potevano risolvere e che ha a che fare con il mondo tutto intorno.
Siamo alla quarta stagione di Stranger Things, sei anni dopo l’esordio, tre anni dopo la terza. In mezzo c’è stata una pandemia che ha creato un prima e un dopo, e ora c’è pure una guerra anche lei capace, probabilmente, di creare un prima e un dopo, e che se pure richiama certi spettri della Guerra Fredda, non è nemmeno più incorniciabile con le stesse, ingenue categorie con cui il cinema americano viveva lo scontro con l’Unione Sovietica.
Per dirla più semplice, Stranger Things è invecchiata, e patisce il peso del suo stesso successo.
Arrivata in sordina in un momento in cui Netflix stava mostrando i primi muscoli, Stranger Things era diventata oggetto di culto, inserendosi in una specifica onda di nostalgia anni Ottanta che ha insieme colto e contribuito a potenziare.
Ora quell’onda si è un po’ affievolita, sporcata da eventi fin troppo presenti per permetterci di rifugiarci nel passato, e Stranger Things deve combattere sempre e comunque con aspettative fuori scala, in uno scenario in cui Netflix non è più l’unica e più amata piattaforma, ma un crogiolo capace di sfornare di tutto e di attirarsi lodi e critiche in egual misura.
Il risultato, in termini emotivi, è una stagione che riesce ancora a intrattenere benissimo, a toccare vette particolarmente alte, a farci digerire senza troppi problemi episodi che durano tutti più di un’ora.
Allo stesso tempo, una stagione a cui manca il vero stupore, forse ormai irriproducibile, a meno di cambiare la serie al punto da non essere più Stranger Things.
Vorrei essere chiaro: considero questa prima parte di stagione complessivamente positiva. C’è di che divertirsi, c’è di che chiacchierare, c’è di che applaudire. E sono anche convinto che questa strana modalità distributiva, con sette episodi staccati dai restanti due, sia stata pensata per dare a quei due una dimensione da “evento”, da “filmone”, che potrebbe funzionare in termini di marketing e, sono certo, sarà supportata da una scrittura all’altezza.
Ma se pensate che queste prime sette puntate vi facciano volare come la prima stagione, ehhh, secondo me quello non si può più, non per sette ore, non con la stessa, placida ingenuità. E non per colpa di Stranger Things.
Se fra i prossimi due episodi e la quinta e ultima stagione si riuscirà a risalire a quelle vette emotive, non lo considererò un compito necessario e doveroso, piuttosto un mezzo miracolo.
Ci risentiamo a luglio quando, stavolta, faremo una recensione finale bella spoilerosa.