We Own This City – HBO: The Wire, vent’anni dopo di Marco Villa
A vent’anni esatti da The Wire, con We Own This City David Simon torna sulle strade di Baltimora. In grandissima forma.
La stagione dell’amore (seriale) viene e va. Tre giorni fa si parlava di Palpito la serie più brutta del 2022. Oggi si parla di We Own This City, che per quanto mi riguarda, per gusto personale, è la novità più bella da gennaio a oggi, la prima serie che mi entusiasma da diversi mesi. Non so se sia un bene o un male, ma è anche la serie più fuori dal tempo che vedremo quest’anno. Di solito questa è una categoria che uso in negativo, per segnalare quei titoli che non si sono accorti che il mondo è cambiato, tipo le serie procedurali da generalista vecchio stile o le sitcom con le risate sotto. Questa volta, invece, la uso in positivo, perché sì, We Own This City è una serie che sembra uscita non solo da un’altra era geologico-televisiva, ma da un preciso cassetto di un archivio, quello in cui sono custodite tutte le puntate di The Wire. Un cassetto che iniziava a essere riempito esattamente vent’anni fa. Ed è una cosa un po’ diversa, no?
Il primo link tra We Own This City e The Wire è semplice ed è David Simon, creatore di entrambe. Collegati a Simon ci sono anche gli autori Ed Burns e George Pelecanos, per non parlare della rete, che è sempre HBO (la prima puntata è andata in onda il 25 aprile, arriverà su Sky in estate). Altri punti in comune: si parla di spaccio di droga a Baltimora, di task force della polizia e le due serie sono figlie di lavoro sul campo, per capire la quotidianità di poliziotti e criminali.
We Own This City però è anche figlia del proprio tempo, perché mette al centro un caso centrale nel rapporto complicatissimo tra forze dell’ordine e cittadini afroamericani. Il punto di partenza – e qui parliamo di fatti realmente accaduti – è l’uccisione di Freddie Gray, un ragazzo nero di 25 anni, fermato e arrestato senza motivo da un gruppo di poliziotti, che lo picchiano, lo malmenano e finiscono per ucciderlo.
Come spesso accade in questi casi, le accuse nei confronti dei poliziotti cadono, ma il problema resta. Questo è lo sfondo di We Own This City, una Baltimora lacerata, in cui gli afroamericani hanno paura della polizia e (gran parte) della polizia ha paura di sbagliare. Risultato: crollano gli arresti, la criminalità ha più spazio e i poliziotti che non si fanno problemi a essere violenti vengono tollerati, perché sono tra i (relativamente) pochi che continuano ad arrestare senza timore. Una situazione paradossale, su cui si innestano le storie dei personaggi di We Own This City, che sono tanti, come da tradizione per David Simon.
Una delle componenti che ho apprezzato di più di We Own This City è il fatto di voler raccontare il lavoro quotidiano dei poliziotti senza alcun eroismo, mostrando al contrario tutta la componente più tecnica e burocratica. Il caso che mette in moto la serie ci viene presentato alla larga, da un poliziotto che trova eroina sul luogo di una morte per overdose, prova a risalire a chi l’ha venduta, ha una pista, si confronta con altri colleghi, inizia un appostamento, poi piazza una videocamera, poi piazza un geolocalizzatore , tutto inframezzato da mandati e colloqui tecnici con i superiori, con tanto si verbali da riscrivere a causa di errori di battitura. Un’epica burocratica. Quando finalmente tutto arriva a un punto e scatta la retata, gli investigatori scoprono che sulla macchina del pedinato c’era anche un altro geolocalizzatore della polizia: chi ce l’ha messo? E perché?
A quel punto si capisce in che modo la loro storia si incrocerà con quella di Nicole Steele (Wunmi Mosaku), funzionaria chiamata proprio dal sindaco di Baltimora per indagare sulle violenze e le deviazioni della polizia. Consapevole di avere il tempo contato per questioni politiche, Nicole inizia a cercare nomi di poliziotti che abusano del proprio potere, ma che vengono tenuti sulle strade proprio per quel problema di arresti in calo cui si accennava in precedenza. Il primo della lista è Daniel Hersl (Josh Charles), sostanzialmente un fascista in divisa da poliziotto, ma un altro personaggio al limite è Wayne Jenkins (Jon Bernthal), che chiude il primo episodio rivolgendosi ai federali che lo interrogano con un emblematico: “Ma voi sapete con chi state parlando?”.
Se The Wire era una serie su due gruppi che si combattono (polizia e criminali), We Own This City è una serie sul potere e su equilibri e rapporti che derivano dalla sua gestione. In ogni ambito: da quello istituzionale a quello degli angoli delle strade, fino al confronto continuo tra chi impugna un manganello e chi quel manganello ha imparato a temerlo.
Prima parlavo di come sia una serie fuori dal tempo, perché in ogni suo centimetro We Own This City dichiara di voler essere la nuova The Wire: cambia la storia, ma resta lo stile. Fatto di recitazione ipernaturalistica, musica diegetica (cioè che suona negli ambienti delle scene e non fa parte della colonna sonora della serie), camere a spalla e addirittura stessa impostazione della sigla, con musica jazzata e fotografie di crimini. E in alcuni casi anche i costumi sembrano uscire dagli anni ’90, per aumentare questa sensazione.
È come se David Simon avesse detto: “Proviamo a rifare il nostro più grande successo, adattandolo il meno possibile”. E il bello è che funziona: The Wire fu una rivoluzione, ma a vent’anni dal suo primo episodio, anche una serie che vi si avvicina ai limiti della derivazione è comunque radicalmente diversa da tutto il resto che vediamo in televisione. Ci tengo a sottolineare di nuovo il dettaglio di racconto delle procedure quotidiane della polizia, perché spiega perfettamente come si vuole catturare l’attenzione dello spettatore scegliendo la strada più impervia, quella che prevede la sottrazione di ogni elemento spettacolare. L’unicità è evidente, innegabile. Poi arriva il gusto, perché, per quanto la qualità sia altissima, questo taglio può piacere o meno. È il motivo per cui We Own This City al 99% non sarà in testa alla classifica delle migliori serie del 2022. Ma è anche il motivo per cui Palpito, invece, al 99% sarà all’ultimo posto di quella stessa classifica.
Perché guardare We Own This City: perché è una cosa diversa, come lo fu The Wire
Perché mollare We Own This City: perché la sottrazione estrema è una strada impervia