Slow Horses – Apple Tv+: una serie spy di cui siamo già grandi fan di Marco Villa
Slow Horses è una serie spy sofisticata e ben scritta, che si presenta con due ottimi episodi iniziali
Dicono tutti che per fare un pezzo che piaccia a Google, bisogna partire subito a razzo con l’argomento da trattare. Ecco perché, per parlare di Slow Horses (su Apple Tv+ dal 31 marzo), faccio un giro che parte da più di dieci anni fa. Perché ci sono serie che durano anni, che guardi fino in fondo e che magari poi cancelli dalla tua testa in tempo record. E poi ci sono serie che durano una manciata di puntate, magari nemmeno finiscono nel senso canonico del termine, troncate per ragioni produttive.
E però ti restano in testa. Tipo The Black Donnellys o The Chicago Code. Per quanto mi riguarda, però, da quando c’è Serial Minds (e sono ormai quasi 12 anni) il più grosso rimpianto per una serie che avrebbe potuto dare di più e invece no ha un solo nome: Rubicon, tredici puntate su AMC, a cavallo dell’estate 2010. Storie di spie, intrighi e contro-intrighi, con poca azione e tantissima tensione. Questo cappello da nonno Serial Minds per spiegare il motivo per cui Rubicon è la prima serie che mi è venuta in mente guardando i primi due episodi di Slow Horses, che sono semplicemente ottimi.
Gli Slow Horses del titolo fanno riferimento ai cavalli che partecipano alle corse, ma senza nessuna possibilità di vittoria e quindi senza nessuno che scommetta su di loro. Sono lì, esistono, scendono in pista, ma sono talmente lenti che è come se non ci fossero. Esattamente come le persone che lavorano nella Slough House, sede molto distaccata dell’MI5, il servizio segreto inglese, dove vengono mandati agenti di ogni tipo, ma con una caratteristica comune: hanno commesso gravi errori e devono essere parcheggiati per un tempo indefinito, per far scontare una sorta di pena.
Slough significa pantano ed è questo il termine usato nella versione italiana per fare riferimento alla sede: perché quando ci entri, rischi di bloccarti come se fossi nella sabbie mobili. A dirigere questa divisione è Jackson Lamb (Gary Oldman), vecchio agente che prende molto sul serio il suo ruolo di bastonatore dei sottoposti, che ricevono insulti e piccole angherie di ogni tipo. Tra i sottoposti c’è anche River Cartwright (Jack Lowden), ex enfant prodige dei servizi, mandato in purgatorio dopo aver agito malissimo nel corso di una esercitazione. Alla Slough House nessuno lavora sul serio: tutti vengono destinati a compiti noiosi e ripetitivi, consapevoli che nulla di quello che stanno facendo abbia davvero un’utilità. Una sorta di contrappasso, per persone che una volta facevano parte di una elite assoluta.
Le cose cambiano quando River si rende conto che lui e i suoi colleghi sono coinvolti nella sorveglianza di un giornalista di estrema destra, che potrebbe anche essere collegato all’evento principali su cui ruoterà la stagione: il rapimento di un giovane di seconda generazione, tenuto in prigionia da un gruppo di neonazisti. Non sto a entrare nei dettagli, ma River e la Slough House finiranno per essere toccati molto da vicino dalla faccenda e finalmente il gruppo potrà tornare in azione.
I primi due episodi di Slow Horses sono le più classiche puntate di ambientazione, con due grossi momenti di azione posti in apertura di serie e in chiusura del secondo episodio. Due momenti carichi di tensione e ben girati, che fanno da teste di ponte per puntate che servono principalmente a presentare una discreta quantità di personaggi.
Oltre al cinico e svaccato personaggio di Oldman e al giovane Cartwright, la Slough House è ricca di figure, che vengono introdotte senza alcuna pedanteria, mantenendo sempre il giusto equilibrio tra necessità di dare informazioni allo spettatore e costruzione narrativa: ognuno dei membri della Slough House, infatti, ha un passato con una macchia e il giochino dei primi episodi è quello di farle emergere nel modo più naturale possibile. Un processo che funziona bene, anche nei momenti più espliciti, come nei dialoghi tra River e la sua collega Sid (Olivia Cooke).
C’è poi la parte più interessante, quella legata alla trama di spionaggio: anche qui, tutto funziona bene. Ci sono gli intrighi, dominati dalla responsabile dell’MI5 Diana Taverner (Kristin Scott Thomas), ci sono gli appostamenti e le sottrazioni di materiali e pure un lungo pedinamento di River nei confronti del giornalista di destra di cui sopra.
Nell’arco di due episodi, Slow Horses costruisce una schiera di personaggi funzionali e credibili, a cui viene naturale interessarsi. Nessuno sembra una macchietta, nessuno respinge lo spettatore o lo fa sbuffare. Allo stesso tempo, la scelta di un rapimento da parte di un gruppo di neonazisti (e quindi il terrorismo interno) è una strada molto interessante e poco battuta.
Ho aperto parlando di Rubicon, è sensato chiudere citando l’altra grande serie spy di questi anni, ovvero Homeland, da cui Slow Horses per il momento è però lontana nei toni e negli sviluppi, alla ricerca di un maggiore livello di sofisticatezza. Bravo quindi Will Smith (omonimo), che fin qui ha scritto soprattutto cose comedy come Veep e che qui adatta il primo di una corposa serie di romanzi di Mick Herron. Grosse aspettative per le prossime quattro puntate, che verranno pubblicata settimanalmente su Apple Tv+
Perché guardare Slow Horses: perché i primi due episodi sono l’equilibrio perfetto tra introduzione e tensione
Perché mollare Slow Horses: perché non è la serie che rivoluzionerà il canone