1883 Series Finale – Un viaggio bellissimo e terribile di Diego Castelli
1883 ci aveva entusiasmato fin da subito e non ci ha deluso fino alla fine
ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE DI 1883
Stiamo vivendo giorni particolari, che dilatano il tempo, che segnano fratture destinate a rimanere cicatrici di lungo corso, che segnano un prima e un dopo. Dopo due anni di pandemia in cui a volte il tempo sembrava non passare mai, e altre volte invece scorreva velocissimo a mangiarsi i giorni e le settimane, ora ripensiamo a una settimana fa e ci sembra un altro mondo, talmente diverso da rendere impossibile prevedere quello di settimana prossima. In questo contesto, parlare del finale di 1883 fa un effetto strano: è iniziato a dicembre 2021, cioè l’altro ieri, e sembra venire da chissà quale passato. Sarà che è un western, sarà che racconta mesi di viaggio, sarà che costruisce una storia in cui ci sono intere vite. Fatto sta che dobbiamo parlare di un piccolo blocco di dieci episodi, e ci sembra di discutere di una serie decennale.
Del pilot di 1883, prequel di Yellowstone, aveva scritto il Villa, fortunatamente usando parole al miele. E dico “fortunatamente” perché io avevo semplicemente adorato quell’episodio, e se mi fossi accorto che si andava verso una delle nostre proverbiali faide, avrei cercato di prendermelo. Dell’esordio di 1883 mi era piaciuto tutto: la messa in scena ricca e ariosa; il tono insieme riflessivo ma anche concreto, realistico, crudo; i volti intensi dei protagonisti e la varietà di un cast pensato per raccogliere tutte le sfumature di quegli anni di passaggio e cambiamento. E ovviamente, mi ero innamorato cotto di Elsa, la giovane primogenita Dutton che per tutti i dieci episodi, anche attraverso la sua voce narrante, è stata lo sguardo attraverso cui abbiamo visto la frontiera.
Vorrei però evitare di ripetere cose già dette tre mesi fa, quindi andiamo al nocciolo della questione odierna. Il Villa aveva detto che 1883 era una storia di genere, che usava tutti gli strumenti più classici del western alla massima potenza, e questo era ed è certamente vero. Quello che però non si poteva sapere all’epoca, quello che anzi proprio quel pilot ci aveva nascosto, era che sotto la superficie ribolliva qualcosa che, invece, scardina e ribalta certe strutture secolari.
Potremmo riassumere tutto con una parola: fallimento.
Quella raccontata da 1883 è prima di tutto una storia di fallimento, di promesse non mantenute, di sogni infranti. Se guardiamo il primo episodio scopriamo che tratta della storia di alcuni cowboy, di varia provenienza, che accettano il compito di condurre un gruppo di emigrati europei attraverso la nazione, con l’obiettivo di trovare uno spazio libero e fertile in Oregon, dove mettere su casa.
Un gruppo fragile ed eterogeneo a cui si aggiunge anche James Dutton con la sua famiglia, nel più classico dei “l’unione fa la forza”, particolarmente utile in una terra ostile per sua natura, e pure popolata di fuorilegge e tribù indiane non tutte necessariamente pacifiche (anche perché in quegli anni gli stanno portando via le terre, hanno un po’ il dente avvelenato, oltre alle frecce).
Ebbene, se guardiamo all’epilogo di quella spedizione, è difficile non considerarla un fiasco pressoché totale, considerando che i migranti muoiono quasi tutti, e che alla fine muore proprio lei, Elsa, la protagonista, la ragazza giovane, bella e determinata nei cui occhi avevamo letto la speranza per un futuro migliore.
La vicenda di Elsa è, naturalmente, il punto focale dell’impalcatura concettuale su cui si regge 1883, e il progresso del suo punto di vista non potrebbe essere più esplicito, considerando che la voce di Elsa si rivolge direttamente a noi, spiegandoci quello che accade e, soprattutto, ciò che lei sente.
Già dai primi episodi, 1883 smette di essere una storia di speranza, di progresso e di conquista, e diventa invece una storia di sopravvivenza, in cui percepiamo con sempre maggiore chiarezza l’amaro contrasto fra la bellezza dei luoghi incontrati dai personaggi e la loro efferata spietatezza. Quella di 1883 è una Natura ostile, spesso addirittura maligna, la cui “conquista” ha effettivamente le caratteristiche della guerra senza esclusione di colpi. Sì, può essere attraversata e domata, ma esigerà un prezzo altissimo.
Nei grandi classici del western, sia quelli dedicati agli scontri fra uomini (magari in polverose città di frontiera piene di banditi, sceriffi e pistoleri solitari), sia quelli più incentrati sull’esplorazione di terre vergini e incontaminate, al centro c’era sempre la forza degli esseri umani, la loro capacità di adattamento, e infine il superamento delle difficoltà. Non significa che non moriva nessuno, ma solitamente chi moriva erano i cattivi o personaggi secondari e spesso senza nome che avevano il compito di dare il là alla storia.
Non che non manchino eccezioni, naturalmente, ma se pensiamo al genere nel suo complesso, non c’è partita: la vittoria degli uomini sulla natura, e la vittoria dei buoni sui cattivi, erano e restano al primo posto.
Solo che la realtà non era proprio così. Certo, l’Ovest è stato conquistato, gli Stati Uniti sono nati e hanno prosperato, i nativi americani non sono riusciti a contrastare l’avanzata del progresso di matrice europea. In questa storia, però, c’è una quantità di morte, di sangue, di dolore, di malattia, di fame, che l’epica del western aveva accuratamente ripulito e addolcito, permettendo ai ragazzini di giocare ai cowboy senza preoccuparsi del fatto che probabilmente migliaia di pistoleri sono morti di febbre e setticemia piuttosto che durante un onorevole duello.
Ecco, 1883, che è un romanzone che non punta a essere un documentario, ci restituisce però il senso di una realtà molto più cruda e tragica di quella che il cinema ci ha insegnato con insistenza, sorprendendoci col fatto che sì, anche le Elsa di turno morivano, e senza che alla Natura fregasse alcunché.
Peraltro, Taylor Sheridan ha giocato in modo molto furbo con le nostre aspettative. La serie di apre con l’immagine di Elsa colpita dalla freccia, e poi si parte con un flashback che dura per nove episodi su dieci. È chiaro che durante tutti gli episodi che servono per “tornare in pari” maturiamo un inevitabile affetto per Elsa e cominciamo a chiederci con sempre maggiore insistenza come riuscirà a uscire da quella situazione. Ma appunto, diamo per scontato che ce la farà, perché così deve essere, perché è la protagonista e perché è troppo brava e bella per farla morire.
E invece, surprise motherfucker, Elsa muore. Non muore in quell’esatto momento, ma comunque la ferita della freccia risulta fatale, non senza la specificazione che se si fosse trovata in un posto più civilizzato della frontiera, forse sarebbe sopravvissuta.
Ma quindi non c’è speranza? La serie punta a prenderci a pugni con la cruda realtà dell’Ottocento senza darci nemmeno una carezza? No, non esageriamo.
Innanzitutto è giusto sottolineare che la spedizione nel suo complesso è un fallimento, ma alcuni personaggi importanti riescono effettivamente a portare a termine i loro compiti: Josef perde una moglie e una gamba, ma riesce a prendersi la terra che voleva; Thomas va anche oltre, perché in quello che pensava essere solo un lavoro trova l’amore; Shea, settantacinquenne che aveva come unico obiettivo quello di arrivare all’oceano per farlo vedere alla moglie morta attraverso i suoi occhi, riesce effettivamente ad arrivare sulle spiagge della California, dove si suicida con il cuore finalmente leggero (giova notare che Shea è un altro personaggio “deviante” rispetto alla tradizione del western, perché è un cowboy esperto e un abile pistolero, ma anche un uomo che non ha paura di mostrare i propri sentimenti e, per dirla terra terra, piange in continuazione).
Ma le cose, paradossalmente, non vanno così male nemmeno per la stessa Elsa. Perché se è vero che il tema del fallimento nella lotta contro la Natura e la Realtà è centrale nella serie, altrettanto importante è quello della crescita e dell’apprendimento.
Nei sei mesi passati in viaggio, Elsa impara a guidare una mandria, impara a sparare e uccidere per difendersi, si innamora due volte di due uomini diversissimi, diventa una sposa indiana, e accumula una quantità di conoscenze sulla vita e sul mondo che non sarebbe riuscita a mettere da parte nemmeno passando una vita intera a fare la brava signorina a New York.
In fondo Shea lo dice esplicitamente, proprio quando sa che Elsa sta per morire: dice al padre che la ragazza è sopravvissuta a tutti loro. Una frase che ha un senso preciso: mentre molti personaggi continuano a vivere nel passato e a farsi inesorabilmente influenzare da esso (al punto che, in qualche modo, sono già morti), Elsa non smette nemmeno per un secondo di pensare al futuro, nemmeno quando si tratta di scegliere il posto dove dovrà essere sepolta.
La fiducia di Elsa nel futuro è stata sì formalmente spezzata dalla cruda realtà, ma proprio le difficoltà della frontiera hanno avuto l’effetto di far crescere Elsa, di trasformarla in donna, di farle vivere in soli sei mesi quello che non avrebbe mai vissuto in una vita intera lontano da quei luoghi.
Il paradosso finale di una serie che ha punito severamente i suoi personaggi (e che non so se verrà rinnovata, forse non avrebbe nemmeno tanto senso EDIT: Taylor Sheridan ha detto che l’aveva pensata come una stagione unica, e quindi probabilmente rimarrà tale), è che l’ultimo messaggio non è un messaggio di dolore, non è un invito a rinunciare ai propri sogni, come potrebbe sembrare ripensando alle vite distrutte sulla via dell’Ovest. Il messaggio vero, quello che esce da un episodio finale tutt’altro che cupo, è invece un invito a vivere appieno i propri sogni, a perseguire con quanta più determinazione possibile le proprie aspirazioni, perché proprio quel viaggio, esteriore ma anche interiore, ci permetterà di vivere una vita piena e completa, a prescindere dalla sua effettiva durata.
Un messaggio molto “a stelle e strisce”, che arriva da un repubblicano come Taylor Sheridan che ha probabilmente molto a cuore il tema della patria, del sogno americano, del lavoro e del sacrificio come strumenti per il progresso collettivo. Ma anche un messaggio, a prescindere da come ognuno di noi voglia accoglierlo per sé, che 1883 illustra e approfondisce nella maniera meno scontata possibile, allontanandosi dai cliché più stucchevoli e lasciandoci la memoria di personaggi fantastici, che ci sembra di conoscere da tre decenni, quando in realtà sono tre mesi.
Chapeau.