The Gilded Age: Julian Fellowes riscrive Downton Abbey in America di Diego Castelli
The Gilded Age trasporta oltre Atlantico le atmosfere della mitica serie di ITV, con un cast stellare e l’inevitabile rischio dejà vu
Ce l’eravamo detti la prima volta che avevamo sentito parlare di The Gilded Age, prima serie di Julian Fellowes dopo Dowton Abbey (Belgravia e The English Game erano miniserie): sembra proprio che l’autore inglese voglia rifare Downton in America.
Poi abbiamo visto i primi trailer, e subito ci è venuto da pensare che sì, effettivamente parevano proprio Downton Abbey in America.
Ora che abbiamo effettivamente visto i primi tre episodi della serie, però, ecco la scioccante sorpresa: The Gilded Age (in arrivo a marzo su Sky Atlantic) è esattamente Downton Abbey in America.
Il termine “The Gilded Age”, mutuato da un racconto di Mark Twain del 1873, viene solitamente utilizzato per indicare il periodo che negli Stati Uniti va dal 1870 al 1900, un trentennio di grande espansione economica, di ricchezza e flussi migratori provenienti dall’Europa, ma anche di profondi cambiamenti sociali e tensioni anche aspre fra un minoranza sempre più ricca e grandi masse di lavoratori più poveri (per quanto meno poveri rispetto al Vecchio Continente).
In questo contesto, ecco arrivare il creatore di Downton Abbey, quel Julian Fellowes che con il racconto dell’Inghilterra del primo Novecento descrisse un altro momento di passaggio epocale, che avrebbe portato l’antica e apparentemente granitica nobiltà britannica a dover ripensare il proprio ruolo, i propri privilegi, talvolta la propria stessa esistenza.
Downton Abbey è stata un fenomeno mondiale, apprezzata anche e soprattutto in quegli Stati Uniti che la guardavano come il racconto di certi vecchi nonni o cugini, parenti alla lontana che avevano un fascino tutto particolare, antico, ma anche un carisma, una dignità e un’etica che gli statunitensi non riescono più a vedere nella loro classe dirigente (ma il discorso ovviamente possiamo farlo un po’ tutti).
Da qui arriva la proposta di HBO, che porta Fellowes dall’altra parte dell’Atlantico e gli mette in mano un botto i soldi e la Storia Americana, serbatoio da cui attingere qualcosa che sia molto simile al suo vecchio successo. O almeno così me la figuro io, visto il risultato finale.
The Gilded Age – ambientata solo un paio d’anni prima di 1883 di Taylor Sheridan, ma radicalmente diversa come scenografie e paesaggi perché incentrata sulle vicende di ricchi newyorkesi invece che su quelle di poveri cowboy in fuga verso la frontiera – racconta di alcune famiglie della ricca borghesia americana, impegnate a gestire il periodo di transizione di cui si diceva, che comporta ampi trasferimenti di capitali, nuove imprese che nascono e muoiono, rapporti di potere e di amicizia estremamente fluidi.
La cosa interessante, o furba, o tutte e due, è che Fellowes non poteva mettere in scena una vera e propria vicenda nobiliare, perché la nobiltà classicamente intesa, quella basata sul sangue, negli Stati Uniti non è mai esistita.
Ecco allora un altro tipo di nobiltà, quella creata dal denaro, dal potere politico e dalla terra. Anche quello di The Gilded Age è un mondo di classi sociali molto divise, di ricchi signori e servitori ben vestiti, di pizzi, merletti e frasi affettate, ma oltre a questo ci sono gli imprenditori, le spregiudicate operazioni di borsa, le tensioni fra i ricchi (soprattutto fra le donne alla guida del processo di inclusione ed esclusione sociale) che nascono non da pretese superiorità di sangue, ma da concetti molto meno arcaici tipo “noi eravamo qui prima di te e ci devi portare rispetto”.
Come e anzi più che in Downton, il cast è molto corale, ma diciamo che l’azione di concentra su due famiglie: da una parte quella di Agnes Van Rhijn (Christine Baranski), vedova anziana, ricca e tradizionalista che vive con l’ingenua sorella Ada Brook (Cynthia Nixon) e accoglie sotto il suo tetto la nipote Marian Brook (Louisa Jacobson), figlia del suo scapestrato fratello, e Peggy (Denée Benton), ragazza nera che fa amicizia con Marian e diventa segretaria di Agnes.
Se la famiglia Van Rhijn-Brook ha profonde radici sul territorio (anche se non la possiamo chiamare strettamente “noblità”), dall’altra parte c’è la famiglia Russell, composta George (Morgan Spector), costruttore di ferrovie in rampa di lancio, la moglie Bertha (Carrie Coon) e la giovane figlia Gladys (Taissa Farmiga). I Russell sono i nuovi arrivati nel quartiere, hanno fatto costruire una sfarzosa villa davanti a quella di Agnes, e ora vogliono essere accettati nella buona società newyorkese, costi quel che costi.
Ci ho messo un po’ a entrare nel meccanismo di The Gilded Age, e sono contento di scrivere dopo averne visto tre episodi e non solo uno. Il pilot, infatti, è molto lungo (circa 80 minuti) e alle mie orecchie è suonato soprattutto come un lungo, soverchiante elenco di nomi. Sostanzialmente, non ci stavo capendo nulla.
Poi, ora del terzo episodio, la magia di Julian Fellowes comincia a venire fuori. Ed è la magia, che avevamo visto anche in Downton, derivante dal contrasto fra ciò che si vede e ciò che non si vede: l’etichetta, l’ostentata affettazione, la ricchezza barocca delle vesti, delle parole e dei comportanti da una parte; il tumulto di passioni, amori, odi, invidie e vendette dall’altra.
Arrivati non senza una certa fatica al terzo episodio, e dopo aver compreso per bene i desideri più reconditi di buona parte dei protagonisti, la forza delle tensioni in campo diventa così palese da essere appassionante quel tanto che basta a farci dire: sì ok, The Gilded Age mi piace e voglio conoscere il destino di questi personaggi.
Un appunto però bisogna farlo, perché essere legittimamente e perfino “tecnicamente” la Downton Abbey americana è certamente un bel pregio per la serie, ma può anche essere uno svantaggio.
The Gilded Age è la versione a stelle e strisce di Downton non solo “in teoria”, o spiritualmente. È proprio una specie di clone. Consciamente o meno, Fellowes ha riempito la sua nuova creatura di personaggi che, in molti casi, hanno un corrispettivo diretto in un personaggio di Downton, di cui replicano ruoli, movenze, modi di parlare, temi che si portano dietro.
È una cosa che si vede soprattutto nella servitù, che al momento ha un ruolo meno importante di quello che aveva in Downton, ma è un discorso che si può fare anche più in alto, a partire dalla stessa Agnes, in cui sono evidenti alcuni tratti di Lady Violet, soprattutto nel costante sarcasmo verso tutto ciò che è nuovo e “moderno”.
Ma non è l’unico “contro” di The Gilded Age, che non può contare, molto semplicemente, sullo stesso pregresso storico di Downton: parlare della nobiltà e, indirettamente, della monarchia inglese, e del loro mutare all’arrivo dell’epoca contemporanea, non può che essere più stimolante e ricco di significati rispetto a delle baruffe fra ricchi in un luogo&momento storico che non ha particolare fascino nella memoria collettiva.
Per dirla in un altro modo, la parte affascinante della storia (relativamente) recente americana resta la frontiera, il Far West, magari la Guerra Civile. Il mondo dei ricchi industriali della New York di fine Ottocento non si porta dietro chissà che aura mitica, e pare più una scelta fatta a posteriori, perché meglio si adattava alle capacità creative di Julian Fellowes.
Questo non toglie nulla a The Gilded Age in termini di ricchezza produttiva e qualità della scrittura, che restano molto alte e che, come detto, riescono a diventare molto appassionanti se si ha giusto un minimo di pazienza iniziale.
Perché seguire The Gilded Age: dopo un inizio un po’ complicato, la scrittura di Julian Fellows mostra di non aver perso la sua fluidità e il suo fascino. E poi ha un gran cast.
Perché mollare The Gilded Age: la sua somiglianza con Downton Abbey è una risorsa ma anche un freno, perché il rischio è quello, almeno in parte, del già visto.