In From The Cold – Netflix: una spy story tutta piena di locura di Marco Villa
In From The Cold sembra una spy story normalissima, fino a quando non arriva la locura in tutto il suo “splendore”
ATTENZIONE: SPOILER SUI PRIMI DUE EPISODI
Nel momento in cui scrivo questo pezzo, In From The Cold è una delle serie più viste su Netflix in tutto il mondo. E da un certo punto di vista è del tutto comprensibile. È una serie che parte da zero a cento con una sequenza introduttiva d’impatto e finisce con una sequenza altrettanto sorprendente. In mezzo, almeno un paio di scene action che catturano l’attenzione e pure la sciccheria di una linea temporale ambientata nel passato. Ricchezza, insomma. Tanti elementi, tutti segnati però da un problema comune: In From The Cold è una serie che funziona, ma spara tutto talmente all’estremo che si fatica a capire dove finisca la convinzione e dove inizi l’ironia. Sempre che inizi.
Creata da Adam Glass, In From The Cold si presenta come la tipica serie spy: durante una trasferta a Madrid per accompagnare la figlia adolescente, Jenny (Margarita Levieva) viene prelevata da una squadra della CIA. Il motivo? Jenny in realtà è Anya ed è stata un’agente del KGB eccezionale, chiamata The Whisper, prima di far perdere le proprie tracce e costruirsi un presente da mamma apprensiva. Di colpo, però, proprio a Madrid, qualcuno inizia a usare il suo stesso modus operandi e quindi la CIA la becca e la costringe a collaborare, altrimenti finirebbe in galera per alto tradimento o simili. E Jenny/Anya non può che accettare, recuperando in tempo zero la propria formazione operativa. E non solo quella.
Per tutto il primo episodio, In From The Cold in fondo è un classicone: tutto quello che ho elencato qui sopra non è niente di nuovo, anzi. Così come non è una novità il modo in cui quella storia viene raccontata. Ci sono tutti i cliché che possiate immaginarvi, talmente spiattellati da essere anche fonte di auto-ironia. Quando la mamma spia viene rapita, si ritrova davanti a un gruppo di uomini e donne in abito e cravatta nera, con occhiali coordinati. Quando lei chiede chi ha di fronte, il capoccia la guarda e risponde qualcosa tipo: “Perché, non si vede?”. Segue mossa coordinata in cui tutti si tolgono gli occhiali (o se li mettono, vabbè, l’importante è che lo fanno in sincrono). Non è l’unico momento che potrebbe essere raccolto sotto un cappello ironico, tipo una scena action di combattimento a mani nude talmente lunga e insistita da superare ampiamente il parossismo. Se nel primo caso, però, l’ironia è evidente, nel secondo non lo è del tutto. Anzi.
In From The Cold corre per tutto il tempo lungo questo filo sottile, perché non si capisce fino in fondo quanto si prenda sul serio e quanto sia invece consapevole del suo essere oltre nelle battute, nelle scene e nella storia stessa. In questo senso, il punto di non ritorno è la già citata sequenza finale. Durante una missione all’interno di un carcere, Jenny viene braccata dai prigionieri e finisce in un cul de sac. A quel punto tutto sembra perduto, serve il colpo di scena. E arriva puntuale, e che colpo di scena: Jenny si trasforma in un secondino sessantenne, perché Jenny non è solo spia, maga delle arti marziali e soccer mam. Jenny è anche una mutaforma. Bum! La locura! Capite il dubbio sull’ironia e la consapevolezza di sé? Perché certo, anche la sequenza d’apertura – in cui vediamo persone che attaccano passanti apparentemente a caso – nasceva da iridi che cambiavano improvvisamente colore, ma altri elementi sovrannaturali non ce n’erano e comunque un annebbiamento nell’occhio è una bazzecola rispetto alla trasformazione di una donna di 40 anni in un vecchio mezzo pelato.
E invece. E invece si scopre che Jenny è l’unica sopravvissuta di un programma estremo dell’esercito sovietico, per creare armi umane in grado di compiere l’impossibile. Da giovane, Anya faceva parte di quel programma e questo spiega anche perché esiste una seconda linea temporale, che mostra proprio la ragazza (Stasya Miloslavskaya) mentre opera come spia e si guadagna il nomignolo di The Whisper.
Qualsiasi serie d’azione richiede una sospensione dell’incredulità, l’importante è che il patto con lo spettatore sia chiaro e non subisca ulteriori contrattazioni in corso di svolgimento. In From The Cold invece non si pone questo problema, rimescolando le carte e giocando sempre al rialzo, come se avesse la necessità di fare all-in ogni dieci minuti. Una tattica coraggiosa, ma anche suicida, perché non si riesce più a dare credibilità a quello che si guarda sullo schermo. In questi giorni e nell’ultima puntata di Salta Intro, abbiamo parlato di The Woman in the House Across the Street from the Girl in the Window, la serie con Kristen Bell che nasce come parodia dei drammoni-gialloni di serie b. Ho detto nasce, perché poi gioca molto di sfumature, evitando di spingere al massimo la parodia e provando a essere una serie in qualche modo credibile, con spinte di auto-presa in giro.
Quella serie lo fa in maniera consapevole (per quanto non del tutto riuscita), In From The Cold invece no, o almeno non del tutto: ci sono sprazzi di ironia, ma in generale la serie vuole essere una spy story “seria” con tracce di soprannaturale. La questione è tutta in quelle virgolette intorno a seria: perché In From The Cold la puoi vedere solo come guilty pleasure che ti fa esultare per ogni esagerazione che mette in fila. Da quel punto di vista, funziona alla grande. Ma è qualcosa che ci interessa? D’istinto direi di no, ma evidentemente sì, visto il successo che sta ottenendo. E che avevano ottenuto titoli come Suburbia Killer o Stay Close, forse i titoli più vicini a In From The Cold per mood e livello, più che per genere.
Perché guardare In From The Cold: perché è un perfetto drinking game mettendo in fila tutte le cose assurde che possono succedere
Perché mollare In From The Cold: perché è davvero oltre, ma in fondo crede di essere una serie vera