24 Novembre 2021

Cowboy Bebop su Netflix: il remake live action che sbaglia quasi tutto di Diego Castelli

Cowboy Bebop è uno degli anime più famosi e amati di fine anni Novanta, e ora è anche una serie in carne e ossa che non gli rende giustizia

Pilot

Così a occhio, dev’essere la settecentoventiduesima volta, questo autunno, che recensisco una serie tv tratta da qualche altra opera cine-comic-letteraria che mi costringe alla solita introduzione sulla rilevanza o meno del confronto fra prodotti diversi, spesso con annessa manifestazione di ignoranza da parte mia, obbligato ad ammettere che non ho letto questo romanzo o quel fumetto.
Oggi non facciamo eccezione. Dobbiamo infatti parlare di Cowboy Bebop, la serie in live action di Netflix creata da Christopher L. Yost (sceneggiatore con una discreta esperienza nell’ambito delle serie animate Marvel) e tratta dall’omonimo anime giapponese di Hajime Yatate che, nel 1998, divenne oggetto di culto mondiale, rimanendo fino a oggi una delle opere più conosciute e amate della serialità animata nipponica.
Per fortuna, data la fama dell’originale anche in Italia, oggi sono preparato anche su quello.

Dico “per fortuna” perché, al contrario di altre volte, il confronto fra le due forme della stessa storia mi sembra abbastanza inevitabile, per almeno tre motivi:
1. È la stessa Netflix che, di fatto, ha prodotto la serie proprio in virtù della fama dell’anime, rivolgendosi in modo diretto e inequivocabile a chi ha amato l’originale (con strategie comunicative che puntavano espressamente sul concetto di “guardate quanto è simile alla cosa che tanto amavate”).
2. Il confronto fra un anime e una serie è inevitabilmente più semplice e immediato rispetto a quello fra una serie e un libro, perché parliamo di due linguaggi molto più simili, che implicano strumenti e strategie comuni, che stimolano gli stessi sensi.
3. Al contrario di casi in cui una serie tv sta su una piattaforma e il libro da cui è tratta sta… sulle mensole o dentro un e-reader, nel caso di Cowboy Bebop entrambe le serie, quella animata e quella in live action, sono disponibili sulla stessa Netflix, che quindi ha perfino suggerito ai suoi abbonati di recuperare il cartone in attesa del nuovo show.

Insomma, a questo giro è Netflix stessa a chiederci il paragone, anche se tenteremo comunque di dedicare un paragrafo a chi l’anime non l’ha mai visto e non lo vuole guardare, anche perché ho l’impressione che i giudizi potrebbero essere molto diversi e vale la pena tenerne conto.
Da qualunque punto di vista la si voglia guardare, comunque, la trama è sempre la stessa: protagonista di Cowboy Bebop è Spike (interpretato da John Cho), un cacciatore di taglie spaziale che vive in un sistema solare lontano da noi una cinquantina d’anni, in cui Marte e altri pianeti e lune sono stati colonizzati e riempiti da un’umanità che non è poi tanto diversa dalla nostra: quando gli esseri umani si espandono continuano a rimanere essere umani, e danno vita a città umane con i loro pregi e difetti, i grattacieli luccicanti e le periferie povere, i bar malfamati e i negozietti simpatici, i criminali e la polizia. Accanto a Spike c’è l’amico e socio Jet (Mustafa Shakir), che condivide con lui la vita sul Bebop, l’astronave con la quale i due cowboy (termine qui inteso come sinonimo, per l’appunto, di “cacciatore di taglie”) scorrazzano per il sistema solare in cerca di qualunque lavoretto gli consenta di sbarcare il lunario. A loro si aggiunge poi quasi subito anche Faye (Daniella Pineda), bounty hunter pure lei.

Vale la pena, a questo punto, fare un piccolo inciso per spiegare, o tentare di spiegare, il motivo per cui Cowboy Bebop (l’anime) è diventato e rimasto un’opera di culto a più di vent’anni dalla sua realizzazione. E provo a farlo consapevole del fatto che qualcun altro potrebbe dare motivazioni diverse, e rivelandovi pure che io non sono mai stato un suo fan accanito, pur apprezzandolo e comprendendone le ragioni del successo.
Nel tentativo di descrivere Cowboy Bebop, la prima cosa che salta all’occhio è che… è difficile descriverlo. E forse sta proprio qui la sua forza: nel 1998 si presentò al pubblico come un anime molto diverso da quasi tutti quelli che erano venuti prima di lui, per storia, per trattamento dei personaggi, forse soprattutto per ritmo.
Probabilmente, quello che salta di più all’occhio è una straordinaria commistione di generi, tutti raccolti sotto uno stile particolarissimo e forse irripetibile: Cowboy Bebop è un noir, un action, una commedia, un thriller criminoso, un’avventura spaziale. È divertente ma anche malinconico, sarcastico ma anche struggente, sa esplodere in scene d’azione di grande impatto visivo per poi sedersi a riflettere in lunghe scene di placida vita quotidiana. È futuristico, certo, ma mantiene un deciso sapore retro, come se il futuro rappresentato dalla serie non si fosse mai potuto staccare veramente dal suo passato. E tutto questo miscuglio di spunti e sensazioni è poi immerso completamente in una colonna sonora diventata marchio di fabbrica, un misto di jazz, funky e groove che risuona in particolare con l’anima noir dello show, e che crea con l’ambientazione fantascientifica un connubio di insospettabile efficacia.
Insomma, la Cowboy Bebop originale è un concentrato di tante cose diverse, che all’epoca trovarono un equilibrio davvero imprevedibile che le permise di presentarsi al pubblico come qualcosa di mai visto prima.
Se io non ne sono un fan sfegatato è perché ne apprezzai fin da subito diversi aspetti, e prima di tutto proprio la sua voglia di essere diversa, ma poi per me restava troppo lenta e forse troppo indeterminata, per uno che voleva soprattutto guardare Goku che in Dragon Ball menava i cattivi e li sparava contro le montagne. Ma questi son proprio gusti personali e basta.

Ora, se anche non conoscete l’opera originale, immaginate di essere una persona che viene da quel mondo lì, da quella serie a cavallo fra due millenni che con la sua atmosfera decadente sembrava lanciare l’umanità verso il futuro, mantenendo però una specie di pacato pessimismo di fondo sulle nostre capacità di cambiare ed essere felici. Provate a immaginarvi il Bebop che galleggia placido nel cosmo, pronto a finire in mezzo a furiose battaglie, ma passando buona parte del suo tempo in attesa, aspettando perennemente che qualcosa di importante succeda e cambi tutto, anche se poi non cambia mai niente.
La percepite questa atmosfera di strana tensione? Lo sballottamento fra inevitabili responsabilità e desiderio di lasciarsi andare a una vita da pirata? La percepite, insomma, la fantomatica “voce della generazione”?
Ecco, la prima Cowboy Bebop era un po’ questa roba qui, e vale la pena dirsi con forza che di quella capacità di trovare un equilibrio fra diverse componenti, di quella bravura a gestire e amalgamare stili diversi, di quella voglia di stupire mantenendo però un’idea artistica forte e riconoscibile, nella nuova Cowboy Bebop di Netflix non è rimasto quasi niente.

Secondo me, se vuoi fare il remake di un prodotto così amato e conosciuto, e così capace, per sua natura, di “suggerirti” il suo aspetto visivo, hai solo due scelte: o provi a farlo davvero identico, come una sorta di omaggio pedissequo, oppure trovi la forza di staccartene con forza, di “ispirarti” alla fonte originale, cercando però una tua sintesi che trasmetta le stesse sensazioni di base usando gli strumenti del tuo presente.
Insomma, o fai un clone o fai un figlio, l’importante è evitare il fratello scemo.
E indovinate un po’ cosa ha fatto Netflix?
Che la Cowboy Bebop in live action abbia velleità da clone lo si era visto fin da subito, da immagini promozionali in cui si vedevano vestiti quasi identici (con il fortissimo rischio-cosplay, perché un taglio e un abbinamento di colore che funzionano in un anime, non necessariamente funzionano in un live action), e una sigla che riproduceva in maniera invero efficace ritmi, colori e stili grafici dell’originale.
Poi però si è caduti fin da subito su cose banali. Se stai rifacendo Cowboy Bebop, e mi stai anche dicendo in maniera piuttosto esplicita “oh, è uguale all’originale”, poi allora diventa completamente inspiegabile che, per interpretare un personaggio giovane-alto-caucasico-esperto di arti marziali, tu ingaggi un attore cinquantenne-basso-asiatico-palesemente inadatto alle scene di combattimento.
In tempo zero tutto il mio fervore viene spazzato via.
Per non parlare, poi, di quello che è probabilmente il singolo elemento più difficile da digerire, ovvero la rappresentazione di Vicious, il cattivo più importante dell’anime: se in versione animati Vicious è il classico villain da cartone giapponese, tanto particolare nell’aspetto quanto oscuro e affascinante nei modi, la sua versione live action (dove a interpretarlo c’è Alex Hassell) è niente più che un povero sfigato con orrendi capelli bianchi, che non solo non ha una briciola del carisma del Vicious originale, ma non ha carisma in generale in quanto cattivo, è proprio un rozzo imbecille scritto malissimo.
E forse non è nemmeno il caso di parlare di Julia (Elena Satine), la donna contesa e affascinante, la femme fatale bella e malinconica, che a cercare di descrivere quanto è scialba e inutile nella serie Netflix mi vien quasi il magone.

Al netto del confronto fra singoli dettagli, però, c’è un problema più grande e più specifico. Questa nuova Cowboy Bebop, forse per paura di diventare un prodotto troppo “difficile” per la piattaforma su cui sta, non riesce in alcun modo a replicare lo stile e il mood dell’originale. Quella sospensione noir di cui si parlava, quella capacità di prendersi delle pause che avessero un senso, anche con il rischio di ammazzare il ritmo, nel live action vengono interamente sostituite da un approccio da serie/film Marvel in cui Spike e Jet diventano i protagonisti di una buddy comedy piena di battutine e battutacce, scazzottate molto light che nulla hanno a che vedere con la plastica potenza dei combattimenti del cartone, e un generale tono commedioso che raccoglie e potenzia solo uno degli elementi (nemmeno il più importante o interessante) dell’anime. Non che non esista lo spazio per la malinconia, perché Spike ha effettivamente il suo passato doloroso, ha le sue ferite da cicatrizzare, i suoi fantasmi da combattere, ma Dio non voglia che queste cose abbiano un peso troppo grande, mica che poi la gente si spaventa e se ne va.
Par dirla più semplice, dal punto di vista del tono, dello stile, dell’atmosfera, dei significati profondi, la serie di Netflix è un tradimento spettacolare e doloroso dell’originale, reso ancora più fastidioso dal fatto che effettivamente la piattaforma aveva cercato di vendere il prodotto come una vera emanazione del cartone. Quello che viene da dirgli, molto banalmente, è: “ma quindi non ci avete capito niente, giusto?”

L’unica cosa che secondo me riesce a mantenere un minimo di fascino è la possibilità di vedere in una forma “reale” (parola da prendere con le pinze, in questo contesto) alcuni elementi che nell’anime erano “solo” disegnati. Per esempio, l’ho provato eccome un brividino di piacere nel vedere la (buona) realizzazione grafica dello Swordfish, l’astronave monoposto con cui Spike si stacca dal Bebop per compiere le sue scorribande. Si tratta insomma di piccoli grandi scorci spaziali e fantascientifici che possono effettivamente dare piacere a chi ha passato vent’anni con gli occhi pieni delle immagini dell’anime, ma non si va tanto più in là della soddisfazione che ti può dare, come dicevamo prima, un buon cosplayer incontrato durante una fiera del fumetto.

Arrivati a questo punto, si può forse fare un discorso un po’ diverso per chi la serie originale non la conosce. Provando a prescindere completamente da quel tipo di memoria, allora mi sembra che questa Cowboy Bebop possa effettivamente dare qualcosa. Se non sai da dove viene e non ti metti a fare confronti, la vita spaziale e cartoonosa di questo Spike può rappresentare qualcosa di diverso rispetto ad altre serie della piattaforma, così come le sue scene d’azione scanzonate possono certamente trovare un pubblico a cui piaccia quel genere di intrattenimento.
Poi certo, anche a volerla vedere in quest’ottica non mi sembra ci sia niente di clamoroso.
Ok la buddy comedy con la battutacce fra maschi alpha che menano, ma onestamente abbiamo visto buddy comedy molto migliori.
Ok lo stile cartoonoso e un po’ esagerato, ma il confine con la poracciata, in un mondo seriale che contempla anche gli effetti speciali di Foundation, The Mandalorian e Star Trek Discovery, è veramente dietro l’angolo.
E se guardiamo al già citato Vicious, anche senza confronto con l’originale mi sembra difficile sostenere che sia un cattivo da temere, qualcuno che possa farci battere davvero il cuore in attesa di uno scontro finale con il nostro protagonista. Scontro che, tanto lo sappiamo, sarà messo in scena con combattimenti alla Jackie Chan anni Novanta che magari possono avere un loro perché, ma di certo non riescono a trasmettere la forza, l’abilità e anche lo spessore drammatico di quelli visti nell’anime.

In conclusione, per quanto mi riguarda Cowboy Bebop è un’occasione persa. Forse non era nemmeno un’occasione, perché andare a toccare un’opera così iconica, con uno stile così unico e così incastrato nel tempo della sua produzione, era già di per sé un’operazione rischiosissima, quasi suicida. Ed effettivamente, a conti fatti, Netflix non è stata in grado di gestire quel tipo di impegno, partorendo una specie di ibrido che non è abbastanza libero da camminare con le sue gambe, ma nemmeno capace di cogliere e riprodurre i punti di forza di un anime che ha fatto epoca.
Cercando in giro ho anche trovato dei fan dell’originale che stanno apprezzando la serie live action (il mondo è bello perché è vario, si sa), ma a prevalere è la classica delusione degli amanti traditi, la frustrazione delle promesse non mantenute. E le promesse non mantenute, si sa, sono quelle che fanno più male.

Perché seguire Cowboy Bebop: se non conoscete l’originale, troverete una action-comedy spaziale che può anche intrattenere senza troppe pretese.
Perché mollare Cowboy Bebop
: se amate l’anime, questo ne è un tradimento così goffo da essere quasi inspiegabile.



CORRELATI