12 Ottobre 2021

Ted Lasso seconda stagione: datele tutti gli Emmy che avete di Diego Castelli

Facciamo un punto sulla seconda stagione di Ted Lasso, che fra alti (tanti) e bassi (pochi) ci ha regalato altre settimane di pura gioia

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SPOILER SUL FINALE DELLA SECONDA STAGIONE

Negli stessi giorni in cui, a settembre, la prima stagione di Ted Lasso vinceva ben sette Emmy Awards, Apple TV+ stava proponendo la seconda, e la domanda quindi sorse spontanea: riuscirà questa nuova stagione, da qui a settembre 2022, a portarsi a casa un’altra sbadilata di premi?
Ebbene, oggi ci troviamo qui a parlare proprio di questo nuovo ciclo di episodi, conclusosi lo scorso venerdì 8 ottobre, e la sensazione che abbiamo è abbastanza netta: a meno che nel corso di quest’anno esca una comedy clamorosa che spacchi tutto, cosa sempre possibile e che naturalmente ci auguriamo per il nostro piacere, ai prossimi Emmy non ce ne sarà di nuovo per nessuno.

Uno dei più grossi pregi di queste ultime dodici puntate è stato quello di aver trovato un equilibrio fra il desiderio di soddisfare i gusti del pubblico, che ormai conoscevano i personaggi e si aspettavano determinate cose da loro, e la ferma determinazione a proseguire un percorso narrativo, tematico e filosofico che fin dalla prima stagione mostrava di avere le possibilità di andare ben oltre la comedy, facendo un discorso complessivo più ampio, strutturato, e anche emozionante.
L’esempio più immediato della prima componente del (nuovo) successo di Ted Lasso, è probabilmente Roy Kent. Il personaggio interpretato da Brett Foldstein (uno di quei sette Emmy è andato a lui) è diventato un favorito dei fan per questa sua continua altalena fra il macho che non deve chiedere mai, e il fidanzato/zio amorevole e capace di inaspettata empatia. Queste caratteristiche, che servono a un’evoluzione di cui riparleremo a breve, sono un grande serbatoio di comicità semplice ed efficace, e questa stagione, con tutti i “fuuuck” urlati o trattenuti ogni volta che la mente di Roy si spalancava a una qualche importante verità della vita, sono diventati un tormentone perfetto, un marchio di fabbrica (non tanto diverso dai musi di Coach Beard o dai problemi a trovare un ufficio di Higgins) che piace a spettatori e spettatrici e che è stato riproposto più volte, sempre con sfumature leggermente diverse, senza mai stancare.

Come detto, accanto a questo pregio quasi “tecnico”, da manuale della commedia, troviamo però anche qualcos’altro.
Fin dalla prima stagione, in cui il personaggio di Ted Lasso si era imposto come esempio di simpatia, ottimismo e altruismo in un mondo altrimenti machista, ipercompetitivo e volgarotto come quello del calcio, sapevamo che la storia non si riduceva a questa specie di iniezione di colore in un universo altrimenti grigio. Ted Lasso aveva problemi, problemi grossi, legati al naufragio del suo matrimonio e a una serie di attacchi di panico che spezzavano consapevolmente il quadretto altrimenti edificante di un uomo sempre sereno e felice.
Quello che vedevamo, in pratica, era la vera natura di quell’ottimismo, che almeno in parte era uno strumento di difesa con il quale Ted soffocava una certa dose di oscurità che, volente o nolente, si portava dentro.
Nella seconda stagione questo tema è stato esplicitamente affrontato e sviluppato, con conseguenze puntuali per il personaggio ma anche per il suo posizionamento più complessivo nel mondo dell’intrattenimento contemporaneo.

Grazie soprattutto all’ingresso in campo della dottoressa Sharon Fieldstone (Sarah Niles), siamo venuti a sapere del suicidio del padre di Ted, e di come questo evento abbia condizionato tutta la sua vita successiva, arrivando all’attacco di panico durante una partita della sua squadra che poi è alla base di tutto il degenero finale che coinvolge anche Nathan.
La guarigione (o inizio di guarigione) di Ted non è solo un momento emozionante per il personaggio e per il suo rapporto con la dottoressa – uno degli elementi più teneri e dolci della stagione – ma è anche il modo con cui la serie intera definisce il suo posizionamento da un punto di vista culturale e perfino politico. Quella di Ted Lasso è anche la storia di un mondo solitamente chiuso e maschilista come quello del calcio, che si apre a una visione diversa, a una possibilità di cambio di paradigma. E se il tentativo di dare meno peso alla competizione e al nonnismo da spogliatoio (senza per questo perdere la voglia di vincere e farsi valere sul campo) era già visibile l’anno scorso, il finale di questa stagione ci mostra l’impegno di Ted ad abbattere il muro di omertà e pregiudizio posto di fronte ai problemi di salute mentale, che proprio in questi ultimi anni (se non ultimi mesi addirittura) stanno salendo alla ribalta dello sport come una questione su cui per troppo tempo si è scelto di far calare un dannoso silenzio.
Ted Lasso (inteso sia come personaggio che come serie) non vuole solo divertire con il contrasto fra ambientazione e tono, ma ha la ben più alta aspirazione di mostrarci che alcune cose, nel mondo in cui viviamo, non funzionano come dovrebbero, e che un’altra via è possibile e auspicabile (pur con tutte le licenze poetiche che un prodotto di fiction porta con sé).

L’evoluzione, comunque, non riguarda solo il personaggio di Ted. Ciò che abbiamo detto di lui, e accennato a proposito di Roy, vale un po’ per tutti i protagonisti, ognuno chiamato a un percorso di crescita e di acquisizione di consapevolezza, spesso legato a temi comuni. Uno di questi è il rapporto con la figura paterna, che riguarda Ted, ma anche Jaime, Nathan, Rebecca, e lo stesso Roy Kent (che non ha problemi con suo padre, ma è egli stesso un padre sostituto per la nipotina, e in quanto tale deve imparare alcune cose per svolgere al meglio questo mestiere). Tutti questi personaggi devono prendere atto del punto in cui si trovano nella loro vita, e decidere cosa fare nel futuro, che si tratti di diventare un giocatore o un compagno di squadra migliore (Jaime), oppure di trovare un compromesso fra i propri sentimenti e quello che si credono essere gli obblighi del proprio ruolo e della propria età, come succede a Rebecca con Sam, altro personaggio che non ha specifici problemi con il padre biologico, ma che si trova a dover decidere se accettare le attenzioni di un padre “economico” che vorrebbe ricoprirlo d’oro allontanandolo però dal percorso che gli stava dando più soddisfazioni.
E non vorrei tralasciare Keeley, che non rientra del tema del rapporto conflittuale coi padri, ma che segue un suo preciso percorso che la porta da essere la classica fidanzata del calciatore, o poco di più, a diventare una businesswoman a tutti gli effetti, capace di coltivare e realizzare i propri sogni, che poi finiscono addirittura con il cozzare con il rapporto con Roy: le tensioni della loro storia, tensioni dovute non tanto all’influenza di soggetti esterni (come ci viene espressamente fatto capire), ma a un più sottile stridore fra i ruoli ricoperti dai due (lui un calciatore in pensione con molto tempo e buone intenzioni, lei una donna in carriera che deve concentrarsi su di sé più di quanto lei stessa voglia ammettere), sono un altro degli elementi più azzeccati della stagione.

No, non mi sono dimenticato di Nathan, ovviamente.
Il finale di stagione, in cui Nate si tramuta in un vero e proprio villain, con tanto di trasformazione fisica come un Darth Vader qualunque (i capelli bianchi, quel fantastico ammiccamento con il sopracciglio), è il momento più scioccante di questo ultimo giro di episodi, e il simbolo della volontà della writers’ room di guardare lontano.
Nathan è un altro, ennesimo personaggio che ha problemi con il padre, solo che, al contrario di altri, lui non li risolve. La pressione che da sempre sente sulle spalle per i giudizi mai indulgenti del genitore era stata alleggerita nella prima stagione dalla promozione a coach da parte di Ted, che così facendo era diventato per Nathan un padre aggiuntivo, e molto migliore, di quello originale. Nella seconda stagione, però, Nathan deve fare i conti con la consapevolezza che nemmeno il suo nuovo status è garanzia di sicurezza e serenità, perché i giudizi impietosi sono sempre dietro l’angolo, e data la sua fragilità ne basta uno per perdere tutte le certezze faticosamente conquistate.
In questo contesto, il fatto che Ted non abbia fornito a Nathan nuove occasioni di riscatto (perché non sentiva ce ne fosse bisogno e perché aveva altri problemi suoi), ha portato l’ex tuttofare dello spogliatoio a provare risentimento proprio per il padre “adottivo” che si era scelto, scaricando su di lui un rancore che ovviamente continua a trovare vera origine nel rapporto con il genitore biologico.
Il risultato poteva essere una qualche ricomposizione da spendere già nel finale, ma autori e autrici hanno deciso che no, questa storia meritava un respiro più ampio: ecco allora un finale da fiato sospeso in cui Nathan non riesce nemmeno ad esultare per la promozione del Richmond e finisce invece per diventare l’allenatore del West Ham, squadra appena comprata dall’odiato Rupert, l’unico altro personaggio di Ted Lasso a cui finora avevamo potuto appiccicare l’etichetta di “cattivo”.
L’unione fra i due, con il tradimento di Nathan e la promessa di chissà quali nuove tensioni, ci garantisce la certezza di una terza stagione che avrà qualcosa di vero e succoso da raccontare, proprio quando ci sembrava che la maggior parte dei conflitti della prima ora fossero ormai risolti.

Tutto ora quello che luccica, dunque? Quasi.
Ted Lasso ha dato nuovamente prova di coltivare un amore smodato per i suoi personaggi, che sono messi nella miglior condizione per brillare da tanti punti di vista, in una stagione che ci lascia col cuore gonfio di una grande varietà di sensazioni.
Siccome però non ci piacciono le agiografie, vale anche la pena di dirsi che non tutto è apparso necessariamente perfetto e immodificabile.
Abbiamo detto del giusto equilibrio fra l’anima comedy verticale e quella drama orizzontale (e bisogna anche fare gli applausi per i due episodi, quello natalizio e quello dedicato a Coach Beard, che erano dichiaratamente slegati dal resto per questioni produttive ma che sono risultati godibilissimi comunque). Questo però non significa che non ci sia stato qualche rallentamento di troppo, o l’impressione che alcune porzioni di episodio fossero un riempitivo in attesa di un nuovo passo avanti sulle questioni che contavano di più.
La stessa simpatia di Ted Lasso è sembrata talvolta un po’ stucchevole, conseguenza quasi inevitabile di ciò che siamo venuti a sapere sulla sua psicologia, ma che ha spostato parte dell’interesse comico verso Roy.

Più in generale, nel corso delle settimane c’è stata talvolta l’impressione di storie e storielle che sembravano avere un respiro e una vita più lunga, ma che si risolvevano poi in breve tempo e in modo non necessariamente spettacolare, come accaduto per esempio con la dichiarazione di Jaime a Keeley, che ha tutto il suo senso nel percorso di crescita dei personaggi coinvolti, ma che è sembrata un po’ frettolosa, soprattutto per il modo in cui era stato gestito il cliffhanger.
Poi naturalmente dipende dalle singole sensibilità: personalmente, posso capire i motivi razionali, in termini di pesi compositivi, che hanno portato a salutare Sharon nel pre-finale, ma il fatto che non ci fosse o quasi nell’ultima puntata mi è comunque dispiaciuto. Stesso discorso per il peso riservato al calcio. Il pallone in senso stretto non è mai stato il fulcro della serie, ma questa volta abbiamo visto davvero poco, cosa che ha avuto la sua influenza sull’epica sportiva del finale: le peripezie del Richmond in classifica non sono mai state oggetto di vera e propria narrazione, ma solo di piccoli cenni qui e là, quindi sapere che nell’ultimo episodio il Richmond si giocava la promozione mi ha fatto piacere, ma avrei voluto vivermela un po’ di più.
Immagino che questo sia un problema che si risolverà facilmente nella terza stagione. Non solo perché c’è tutta la storyline relativa a Nathan che, giocoforza, renderà più pregnante il racconto del rapporto fra il Richmond e le altre squadre del campionato (prima fra tutte il West Ham), ma anche perché è notizia di pochi giorni fa l’acquisto, da parte di Apple, dei diritti di sfruttamento di immagine della Premier League, cosa che consentirà alla produzione di fare riferimenti molto più specifici al mondo del calcio inglese.

In conclusione, non possiamo che essere soddisfatti. Ted Lasso è ancora la serie che abbiamo amato durante la prima stagione, e anzi ha fatto vedere di saper continuare a lavorare sui suoi punti di forza più immediata, senza tralasciare il suo intento di essere anche una serie spessa, densa, con un messaggio e una visione del mondo ben delineati.
I suoi pochi inciampi, ignorabili o comunque facilmente correggibili in futuro, non sporcano il quadro complessivo di un prodotto che resta un faro luminoso della serialità attuale, uno di quelli che ricorderemo a lungo e con il quale molti, se vorranno primeggiare nel prossimo futuro (in senso commerciale ma anche culturale), dovranno obbligatoriamente fare i conti.



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