Tripilot: The Big Leap, Ordinary Joe, La Brea, e i patemi della generalista di Diego Castelli
Tre diversi modi di essere generalista e di fare pochi ascolti nel 2021
Ci ho pensato su prima di scrivere questo tripilot, per un motivo molto semplice: le serie di cui parliamo oggi ben difficilmente lasceranno alcun segno particolare nel mondo delle serie tv, e oltretutto i dati di ascolto sembrano già condannarle, dopo poche settimane dal debutto, a una prossima cancellazione.
Poi però ho deciso di renderne conto lo stesso, prima di tutto perché la rubrica tripilot esiste proprio per mettere in archivio le serie medie e medio-basse, ma anche perché The Big Leap, Ordinary Joe e La Brea, cioè le serie di cui parliamo oggi, ci danno effettivamente modo di fare un piccolo, non certo esaustivo, ma magari significativo punto sullo stato della tv generalista americana.
Che i grandi network statunitensi non se la passino più benissimo, in termini di capacità di imporsi nel discorso culturale sulla narrazione audiovisiva, è tema che abbiamo affrontato più volte. Per dare un’idea della situazione basterebbe guardare alle nomination degli ultimi Emmy, dove a farla da padrone sono stati i nuovi servizi di streaming, seguiti a ruota da poche reti cable che ancora mostrano di saper dire la loro. Dei canali generalisti quasi nessuna traccia, se si esclude una manciata di nomination per qualche comedy e per This Is Us.
Proprio This Is Us, una serie debuttata cinque anni fa, è da considerarsi l’ultimo grande successo della tv generalista americana, dove per “grande successo”, come accennato sopra, non si intende solo la capacità di attirare il pubblico davanti alla tv, ma anche l’abilità di imporre un certo tipo di discorso, di sperimentare nuovi stili, di “farsi vedere”, insomma, costringendo anche gli sfigati blogger italiani come noi a parlarne con interesse.
È giusto specificare ulteriormente che non è tanto un problema di dati di ascolto. Certo, pay tv e piattaforme varie hanno tolto un po’ di spettatori ai canali generalisti, ma non dobbiamo nemmeno dimenticare che le barriere economiche, tecnologiche e culturali all’ingresso di quegli altri canali distributivi continuano a essere motivo di difficoltà per un numero molto alto di famiglie. Questo significa che i grandi network americani sopravvivono ancora e sono in grado di realizzare buoni risultati, ma la vera domanda è “con cosa?”.
Le reti che una volta imponevano nuovi gusti e facevano rivoluzioni, che offrivano Lost e Grey’s Anatomy (quella delle origini), che facevano conoscere eroi seriali come Jack Bauer e il dottor House, oggi sono costrette a vivacchiare con serie che non si possono più permettere grande sperimentazione (quella la fanno altri), e che invece devono preoccuparsi di badare al sodo.
Questo approccio ha prodotto anche cose buone, penso per esempio a medical come The Good Doctor, New Amsterdam o The Resident, ma di nuovo parliamo di serie sostanzialmente medie, che non riescono quasi mai a fare il passo in più verso qualcosa che lasci veramente il segno.
E non è nemmeno un caso assistere a una nuova stagione di revival: ha debuttato un paio di giorni fa CSI Vegas (ne riparleremo) che di fatto è niente più che la vecchia CSI, con gli stessi personaggi. Ed è stato annunciato anche il ritorno di Law & Order, nel senso originale del termine, visto che poi c’erano stati molti spinoff.
Niente di male, in questo tipo di offerta, e niente di male ad appassionarcisi (a me New Amsterdam piace molto, per esempio).
Il tema però, come detto, riguarda la (perduta) capacità della tv generalista americana di fare da avanguardia per la serialità mondiale.
Le tre serie di oggi, in questo senso, offrono un buon esempio, proprio perché sono show che “ci provano”, che tentano di sganciarsi almeno in parte dai generi più solidi e sfruttati, per proporre qualcosa che possa suonare almeno un po’ originale, e poi però alla prova degli ascolti falliscono, probabilmente perché alla generalista è rimasto in dote solo il pubblico che le cose super originali non le desidera granché (chi le vuole le cerca altrove).
The Big Leap, creata da Liz Heldens per FOX, è una sorta di cugina di Glee per adulti (detta così sembra porno, intendo con gli adulti). Si racconta di un reality/talent show (tratto da un effettivo reality inglese), in cui persone comuni appassionate di danza vengono scelte per mettere in scena una rappresentazione de Il Lago dei Cigni, partendo ovviamente da una base di assoluta amatorialità.
A guidarle ci sono Nick (Scott Foley), produttore del programma che non vede l’ora di spremere dai partecipanti ogni goccia possibile di pathos, drammi, storie da raccontare in tv, e Monica (Mallory Jansen, che conosciamo dai temi di Galavant), l’effettiva insegnante di danza che prova a far ballare in maniera decente i concorrenti.
È una serie neanche brutta, in cui le molte storie e i molti personaggi battono tasti diversi e portano una molteplicità di spunti, dai quali il cinismo opportunista di Nick riesce a togliere gli strati di zucchero eccessivo che una storia del genere porta con sé.
Uno show ben messo in scena e raccontato con i tempi giusti, che magari quindici anni fa avrebbe colpito per la capacità di raccontare anche un po’ di dietro le quinte di certi programmi televisivi.
Nel 2021, però, appare un po’ fuori tempo massimo.
Per parlare di Ordinary Joe di NBC viene spontaneo dire “ah sì, la serie tipo Sliding Doors“, dove il riferimento a un film del 1998 già fa capire che non siamo esattamente in presenza di una rivoluzione.
Nello specifico, la serie creata da Matt Reeves (non l’ultimo arrivato, sarà il regista del prossimo The Batman) racconta di Joe, un uomo che a un certo punto della vita si trova di fronte a un paio di importanti scelte romantiche e professionali, che potrebbero condurre a vite molto diverse. E la serie ce ne mostra ben tre, di queste vite: in una Joe è diventato una famosa rockstar, in un’altra è un poliziotto come suo padre, nell’altra ancora è diventato infermiere.
Anche in questo caso, non siamo in presenza di un brutto progetto, soprattutto per il modo in cui la storia è strutturata: come è facile immaginarsi, vediamo le tre vite di Joe contemporaneamente, e ognuna di queste è riempita con gioie e dolori in egual misura, ma soprattutto trovano tutte dei punti di contatto unitari, come degli snodi spaziotemporali in cui tutte finiscono inevitabilmente (nel pilot, per esempio, i tre diversi Joe finiscono tutti alla stessa festa-revival con i compagni dell’università).
È una buona idea, perché mostrare gli stessi momenti attraverso tre vite diverse è molto più efficace che descrivere semplicemente tre binari paralleli che ma si incontrano.
Di nuovo, però, il pubblico americano non ha apprezzato. Forse perché, di nuovo, una storia come questa è necessariamente più articolata rispetto al classico medical e procedural, per essere apprezzata ha bisogno di una concentrazione particolare che possa portare a cogliere, fra tre mesi o tre anni, il peso dei continui incroci e riferimenti interni. Una cosa che This Is Us è pure riuscita a fare, ma che ormai per la generalista è un obiettivo da campioni veri, o semplicemente da colpo di fortuna, che Ordinary Joe non sta avendo.
E chiudiamo con La Brea, sempre di NBC (che negli ultimi anni, al confronto con i fortunati procedural di CBS e le altrettanto fortunate comedy di ABC, è la rete che ha faticato di più a trovare un nuovo posizionamento capace di smarcarsi dalla concorrenza delle nuove piattaforme).
La Brea, dopo il musical vagamente commedioso di The Big Leap e il drama di Ordinary Joe, ci mostra un ulteriore lato della difficoltà delle generaliste: quello legato ai grandi blockbuster misteriosi, eterni figli di Lost.
La Brea racconta di un voragine che si crea nella città di Los Angeles in corrispondenza dei La Brea Tar Pits (pozzi naturali di catrame, considerati riserva naturale). Questo cratere trascina con sé case e persone, e chi ci finisce dentro si ritrova catapultato in un inaspettato mondo primitivo, in cui i sopravvissuti dovranno fare squadra per sopravvivere.
Come vedete, siamo nell’ambito del fantasy e della fantascienza, che la tv generalista americana ha sempre dovuto trattare con delicatezza, riuscendo solo poche volte a sfondare veramente (la stessa Lost è un esempio ambiguo, dato l’enorme successo iniziale, a cui però seguì una vistosa emorragia di pubblico nella seconda metà).
E se già lo storico di questo tipo di show non è incoraggiante, La Brea non riesce nemmeno ad aggiungerci granché di suo: siamo in presenza di una serie che cerca di scimmiottare alcuni punti di forza delle serie cable e streaming, ma che non ci arriva né da un punto di vista tecnico (gli effetti speciali non sono paragonabili a quelli che ormai siamo abituati a vedere su HBO, su Disney+, su Apple Tv+), né da quello prettamente contenutistico, con un approccio che cerca di tenere dentro tutti i pubblici possibili, ma finisce semplicemente banale.
È una serie di avventura e mistero, come è stata recentemente Manifest, per esempio, e come quella è capace di creare qualche momento di suspense decente, ma senza riuscire minimamente a imporsi allo sguardo di un pubblico che ormai è costantemente bombardato da tonnellate di offerte simili e migliori.
Il risultato, come accennato all’inizio, sono ascolti scarsotti e in calando per tutte e tre le serie, che fanno pensare a una chiusura quasi certa, se non addirittura imminente.
Il futuro della tv generalista americana è ancora da scrivere, e a celebrarne troppo presto il funerale culturale si rischia di prendere sonore cantonate. Una cosa però appare certa: se il tentativo di ritrovare centralità viene portato avanti lavorando sugli stessi concept e gli stessi stili che risultavano innovativi 15 o 20 anni fa, il risultato è già scontato, perché sono scesi in campo colossi che quel lavoro lo fanno già e lo fanno meglio. Serve una scossa diversa, un’intuizione che sparigli ulteriormente le carte. Oggi sembra difficile che i grandi network riescano a produrre quella scossa, anche perché, spalle al muro, la tendenza sembra quella di tornare verso prodotti più semplici e rassicuranti.
Detto questo, la palla di vetro non ce l’abbiamo, quindi staremo qui a vedere che succede.