Maid su Netflix: amore immediato per la miniserie con Margaret Qualley di Diego Castelli
Con Maid, Margaret Qualley si conferma attrice superba al servizio di una storia raccontata con gusto e rigore
Stavo pensando al fatto che quando diciamo che una certa persona è un “bravo attore” o una “brava attrice”, non sempre sappiamo spiegare esattamente cosa intendiamo. La recitazione è un’arte che come tutte le arti sfugge alle categorizzazioni troppo rigide (specie nella singola esperienza di chi fruisce), e per quanto, ovviamente, si possa essere più o meno esperti di quell’arte e delle sue componenti più tecniche, a conti fatti finiamo sempre con l’usare categorie soggettive. Senza contare che un attore o attrice raramente sono bravi “in assoluto”, facendo qualunque cosa, mentre più spesso danno il meglio di sé in certe situazioni e certi generi.
Nel cercare di capire cosa spinga me, Diego Castelli, a parlare di buona recitazione, mi è venuta in mente questa immagine: per me un’attrice o un attore sono bravi quando vibrano, quando riescono, usando il corpo e la voce, a prendere il potenziale emozionale di una scena, per inglobarlo, rielaborarlo e poi ributtarlo fuori come una specie di vapore, di carisma, che arriva ai nostri occhi e orecchie ma che fa anche qualcosa in più, palpita con noi, insinuandosi sotto pelle.
E questa vibrazione, questa capacità di buttare addosso a chi guarda le emozioni potenziali della sceneggiatura, è esattamente quello a cui mi viene da pensare guardando Margaret Qualley in Maid.
Maid è uscita su Netflix lo scorso venerdì primo ottobre e, a differenza di altre volte, non ho fatto alcuna fatica a guardarmi tutti e dieci gli episodi prima di scrivere questa recensione.
La serie è creata da Molly Smith Metzler a partire dal romanzo Maid: Hard Work, Low Pay, and a Mother’s Will to Survive di Stephanie Land, ed è prodotta fra gli altri da John Wells, vecchio leone della tv USA (prese le redini di The West Wing da Aaron Sorkin) che qui figura anche come regista di quattro episodi.
Il concept di Maid è semplicissimo: racconta la storia di Alex (Margaret Qualley), una ragazza incastrata in una relazione tossica con un compagno alcolista (Nick Robinson), da cui cerca di fuggire insieme alla figlioletta di tre anni, cercando di rimettere insieme i pezzi della sua vita lavorando come colf e provando a trovare una qualche serenità in un mondo di relazioni difficili, non ultima quella con la madre (interpretata dalla mitica Andie MacDowell, che è effettivamente la madre di Margaret Qualley).
Sappiate che io al Villa l’ho detto chiaro e tondo: guardala bene anche tu perché qui c’è odore di primo posto, e se non è primo posto, siamo comunque lì vicino.
Maid è una serie densa, ma non una serie complicata. Parla di povertà, di relazioni tossiche, di rapporti fra generazioni, di violenza sulle donne. Cerca di rovistare nel torbido di un’America a cui tuttora piace raccontare se stessa come terra di opportunità, ma che poi le opportunità vere le lascia quasi solo a chi ha già i soldi ed è nato in una famiglia per lo meno benestante. Descrive le maglie tentacolari di una burocrazia asfissiante che pare pensata apposta per amplificare il disagio di chi è fisicamente sprovvisto di strumenti per uscire da situazioni in cui ha avuto la sfiga di nascere. Parla di traumi infantili e dei modi arzigogolati con cui la mente cerca di nasconderli, sotterrarli, ribaltarli, assorbirli. Usa il contrasto fra il lavoro di chi pulisce le case e di chi paga per farsele pulire per mostrare il divario economico e sociale che segna profondamente un paese solitamente, e troppo facilmente, considerato unitario.
E fa tutto questo in modo lineare, chiaro, semplice, concentrandosi costantemente sulle vicende di una sola persona, di cui seguiamo i movimenti partendo da una prima crisi (cioè la fuga dal compagno) e procedendo nella difficile e accidentata ricerca di una qualche forma di riscatto personale e sociale.
Ci sarebbero molti lati da cui guardare una serie come questa, proprio perché molti sono i temi che tocca (alcuni anche particolarmente “caldi”), e ognuno può avere una maggiore sensibilità per uno o per l’altro.
Per parte mia, ne sottolineo due, o forse tre.
Il primo è proprio il tema della violenza sulle donne, non certo “originale” in questi ultimi anni, ma di cui Maid riesce a offrire una sfumatura meno usurata: la protagonista Alex, infatti, non subisce mai vera e propria violenza fisica, ma sempre e solo psicologica. Violenza in termini di controllo, di sottrazione di possibilità, di asfissia di sogni e desideri, di potenziali minacce. Un tipo di oppressione meno visibile e per questo meno facilmente raccontabile e perfino sanzionabile, ma su cui Maid si concentra proprio perché in quella difficoltà, in quella via di mezzo fra una vita sana e felice e un’esistenza di lividi e ospedali, c’è un striscia non piccola di abusi che spesso passano sotto silenzio, e che invece meritano di essere compresi e affrontati.
Il secondo, collegato al primo, è un più generale tema di misura e di equilibrio. Maid racconta una vita (o meglio, un periodo di vita) di grande disagio, in cui fattori culturali e geografici di difficoltà si sommano a elementi più contingenti, a errori e sfighe, ma non cade mai nell’errore di sbracare, di diventare un racconto morbosamente duro per il solo gusto dello shock. Maid è una serie che racconta di una protagonista che è vittima, ma non per questo incapace di errore. Descrive il dolore, ma non esclude la possibilità di piccoli momenti di ironia. Si immerge nell’oscurità, ma non dimentica di mostrare sprazzi di luce.
Il risultato, efficacissimo, è quello di apparirci estremamente varia ma anche realistica, non fosse altro perché non ci obbliga mai ad abbandonare la nostra razionalità e capacità di giudizio, in nome della pura emotività. Maid è una serie a tratti dura e commovente, ma che si pone anche il preciso obiettivo di spiegare: spiegare come mai intelligenza e buona volontà (di cui la protagonista è ben dotata) non sempre bastano per uscire da situazioni ingestibili; spiegare come e perché non siamo ancora in grado, come società, di lenire tutti i mali che quella stessa società genera più o meno direttamente; spiegare in maniera precisa e puntuale come il disagio psicologico, culturale, economico e sociale sia capace di trasformarsi in un gorgo che si autoalimenta, e da cui emanciparsi diventa complicatissimo.
Per fare questo, a ulteriore punto d’orgoglio, la serie non si limita a lavorare di sceneggiatura, ma trova anche soluzioni visive di semplice realizzazione ma di grande impatto, come la continua visualizzazione a schermo dei (pochi) soldi che Alex guadagna e dei (molti) soldi che le escono dalle tasche per acquisti obbligati, oppure come il tentativo di mostrare i momenti più bui della vita della protagonista attraverso vere e proprio zone d’ombra metaforiche da cui Alex è costretta a guardare il mondo, sapendo che avrà poche possibilità di trascinarsi verso la luce.
Niente è fatto per complicare, ma anzi per chiarire: non c’è nulla, in Maid, che non si capisca, eppure non c’è nemmeno alcunché di scontato, perché anzi siamo in presenza della continua scoperta di mondi e sottomondi che nella nostra vita privilegiata spesso non conosciamo e/o non vogliamo conoscere.
Perfino nel suo essere smaccatamente femminile e femminista Maid trova una sua particolare misura. La protagonista è una donna, femmina è anche sua figlia, femmina è sua madre, femmine sono le persone che le danno gli aiuti più decisivi. Contemporaneamente, i non molti maschi della serie sono tutti a loro modo figure negative, sia che facciano concretamente il male, sia che semplicemente lo ignorino (permettendogli di esistere), sia che offrano un aiuto che però, volenti o nolenti, si rivela interessato.
Eppure Maid non dimentica, nemmeno qui, di riempirsi di sfaccettature: lungi dal diventare un manifesto urlato e stucchevole, si prende il tempo per mostrare gli errori, le sfighe, le potenzialità di crescita di tutte le parti coinvolte, nella consapevolezza di stare guardando un mondo complesso, pieno di forze contrapposte, che non può essere ridotto a riassuntini schematici, pur nell’affermazione di alcune precise certezze.
In ultimo, e forse questo è il terzo tema introdotto fin dall’inizio, c’è Margaret Qualley. Noi qui le vogliamo bene fin dai tempi di The Leftovers e poi del meraviglioso spot per Kenzo diretto da Spike Jonze, e non posso escludere la possibilità che il mio favore per lei in questa serie sia collegato anche al fatto che me la sposerei domani (una battuta che però potrebbe pure meritare un approfondimento, visto che la bellezza dell’attrice è un ulteriore elemento possibile di analisi di un personaggio che riceve poche opportunità, e di quelle poche, metà vengono dalla sua ingenua e involontaria avvenenza).
Resta il fatto, però, che Maid cala praticamente tutto il suo peso narrativo e tematico sulle spalle di questa attrice ventiseienne, e lei non fa una piega. Vibra, come si diceva all’inizio, e in ogni istante pare perfettamente a suo agio nel compito di restituirci tutto il variegato spettro emozionale di una giovane donna costretta a passare continuamente dalla paura alla determinazione, dalla stanchezza all’apatia, dall’entusiasmo alla delusione.
In pratica Maid è il curriculum definitivo di Margaret Qualley, i dieci episodi che lei potrà portare in giro da qui alla fine della sua carriera dicendo “visto? So fare praticamente tutto”. E lo fa benissimo, partendo dalla fortuna di un viso naturalmente bello ed espressivo, ma sul quale riesce a far passare veramente di tutto, praticamente senza bisogno di parlare.
Una prova spettacolare al servizio di una serie concepita, scritta e diretta con grandissimo gusto e visione cristallina.
Per me, una delle migliori novità dell’anno, se non la migliore.
Perché seguire Maid: racconta cose importanti e lo fa con grande precisione concettuale e visiva, senza contare una protagonista in stato di grazia.
Perché mollare Maid: se proprio non riuscite a soffrire le storie di disagio in provincia.