1 Ottobre 2021

Luna Park – Netflix: anche questa Luna è storta di Marco Villa

Luna Park non convince: didascalica e con una trama improbabile, è l’ennesimo originale Netflix italiano che lascia l’amaro in bocca

Pilot

46:30. Non sono numeri da giocare al Lotto e nemmeno i riferimenti di qualche passaggio biblico. È il timecode di riferimento di una scena della prima puntata di Luna Park, una scena che meglio di qualunque trailer vi può raccontare cos’è questa serie. Protagonisti della scena sono Paolo Calabresi e Gianfranco Gallo: non serve che vi dica chi interpretano e qual è il loro legame, perché nei pochi minuti di quella scena scoprirete una quantità di informazioni che nemmeno in dieci pagine della Treccani. Scoprirete l’interiorità del personaggio di Calabresi, il ruolo di quello di Gallo, il legame tra i due, rivelazioni su quella che è la trama mystery della serie, dei pareri sul fidanzato della figlia di Calabresi, sulla sua famiglia e pure un piccolo piano su come agire da lì in avanti. Prendete queste informazioni, prendete un approccio recitativo tutto votato al drama e all’intensità costi quel che costi e di colpo, alle spalle dei due attori, vi sembrerà di vedere comparire Roberto Herlitzka nei panni di nonno Alberto, mentre brandisce il mitico anello del conte.

È il momento più evidente in cui si intrecciano i principali difetti di Luna Park, ennesimo originale Netflix italiano a lasciare con l’amaro in bocca. La storia, prima di tutto: siamo nella Roma dei primi anni ‘60 e al centro della vicenda ci sono due macrofamiglie. La prima è quella che ruota intorno a un Luna Park della capitale: qui troviamo Nora (Simona Tabasco), ventenne che sta seguendo la tradizione di famiglia, quella portata avanti da tempo dal padre (Tommaso Ragno) e dalla nonna (Milvia Marigliano). Non c’è la mamma, scomparsa anni prima e interpretata nei flashback da Ludovica Martino. È una famiglia libera, a suo modo anarcoide, senz’altro fricchettona (ante litteram). L’altra famiglia è quella dei Gabrielli ed è all’opposto: ricchi sfondati e destrorsi, c’è il già citato papà tutto d’un pezzo interpretato da Calabresi, ma soprattutto ci sono sua figlia Rosa (Lia Greco) e suo figlio Giggi (Guglielmo Poggi e la doppia g di Giggi non è un errore di battitura), che entrano in contatto con Rosa la rampolla giostraia.

E qui arriva l’altra scena cruciale per capire il destino di Luna Park: durante il primo incontro tra le due ragazze, Rosa racconta che ha una sorella dell’età di Nora che è scomparsa da molti anni. La caratteristica della bambina era di avere una voglia a forma di farfalla sulla spalla destra. E secondo voi quale personaggio di Luna Park è l’unica ventenne italiana del 1962 ad avere un tatuaggio sulla spalla destra e, nelle foto in cui era piccola, una voglia di farfalla proprio dove ora è tatuata? Risposta esatta, amici: Nora, la rampolla giostraia.

Le due scene che vi abbiamo descritto dovrebbero essere sufficienti per farvi capire come la scrittura sia il problema principale di Luna Park. A differenza di altri originali Netflix italiani che non avevano avuto grande fortuna, ma che partivano da un concept interessante (pensiamo a Luna Nera e Curon), per Luna Park la fatica era doppia, perché l’idea di una serie ambientata nel mondo dei giostrai già in partenza non è uno spunto accattivante. Per giunta negli anni ’60: dateci gli zarri degli autoscontri del 2021 e almeno ci sarebbe un senso. Se poi la realizzazione è a tanto così dal medaglione spezzato, siamo proprio dalle parti dei prodotti meno innovativi e più tradizionali della televisione generalista, con cui condivide tic tipici, come l’incapacità di veicolare informazioni, se non in forma di spiegone. È evidente che Luna Park, prodotta da Fandando e creata e scritta da Isabella Aguilar (Baby), sia inserita in quel gruppo sempre più ampio di serie pensate per un pubblico larghissimo, ma è altrettanto evidente che possiede un numero tale di limiti da non poter trovare nel target la propria giustificazione. 

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